Dopo il sangue di Bruxelles
Molenbeek, mondo
Il nuovo terrorismo ci parla di giovani disperati e vuoti che giocano a crescere con la guerra e che pensano di cambiare il mondo restando chiusi nel loro quartiere. Come a Molenbeek, a Bruxelles
La realtà ti sveglia con sonori schiaffi anche quando non dormi. Ti sveglia dal torpore in cui sei caduto, che non nasce tanto dall’indifferenza quanto dall’abitudine a subire le tragedie che si rincorrono l’un l’altra senza sosta. Solo fra febbraio e marzo sono avvenute tante di quelle tragedie che oramai non sappiamo più quale sia il linguaggio del dolore. L’uccisione dei due connazionali in Libia, lo sgombero della baraccopoli-giungla alle porte di Calais, il campo di 15 mila profughi accampati nel paesino di Idomeni ai confini fra Grecia e Macedonia, e inoltre i paesi europei che alzano muri alle frontiere, il mare che diventa muro per i migranti, gli attentati all’aeroporto ed alla metropolitana di Bruxelles, attentati visti come continuazione di quelli di Parigi del 13 novembre… ecc.
Senza lasciarci stordire dal rumore delle bombe di Bruxelles cerchiamo di capire se tutte queste tragedie abbiano una logica o almeno un denominatore comune. E la risposta non può che essere affermativa. Infatti, tutte o quasi sono originate da un vero e proprio attacco all’Europa, all’idea stessa di Europa, insomma ai valori della “civiltà europea”.
Quello che stupisce negli attentati di Bruxelles è che gli attentatori vengano tutti dallo stesso quartiere di Molenbeek, centomila abitanti in sei chilometri quadrati. Si conoscono da quando erano bambini, hanno abbracciato la religione musulmana da poco, hanno frequentato più Internet che la moschea e soprattutto cercano di dare un “senso” alla loro vita dispersa, come fanno tutti i giovani che hanno superato la “linea d’ombra” dell’adolescenza ed entrano nel mondo degli adulti grande e terribile. Essi non sono come i seguaci di Bin Laden, montanari maturati in Afghanistan nella guerra contro l’Unione Sovietica, oppure lupi solitari che vagano per il mondo cercando di azzannare la preda più debole che incontrano sulla loro strada. Sono ragazzi di strada nel vero senso della parola, anzi possiamo dire ragazzi della stessa strada del quartiere di Molenbeek, via Gand. E, come succede nel celebre romanzo ungherese I ragazzi della via Pál di Ferenc Molnár del 1906, questi ragazzi imitano il mondo degli adulti, proprio attraverso la guerra e i suoi valori. Cento anni dopo l’uscita del romanzo, i ragazzi di oggi imitano una guerra diversa, che non è più fra nazioni con frontiere e valori comuni ma fra terroristi che si ammantano di valori religiosi per scatenare una guerra contro una società intera. Anzi, a quanto sembra disposti pure a creare una ecatombe nucleare.
Se non possiamo mettere sullo stesso piano la guerra per gioco dei ragazzi del romanzo del 1906 con quella vera, feroce e sconvolgente dei ragazzi di oggi, quello che hanno in comune è il ruolo che la strada riviste. La strada come terreno di gioco e spazio identitario, luogo d’incontro e di progetti, frontiera della marginalità e autostrada della fantasia, luogo dell’anima o luogo dove l’anima può morire.
Il fenomeno che vediamo sotto i nostri occhi è che questa terza generazione di terroristi – se prendiamo come punto di partenza l’11 settembre del 2001 – nel suo rifiuto della società consumista e dei suoi valori materiali (benessere, ricchezza, narcisismo, alimentazione, assenza di Dio, ecc.) nella ricerca di valori totalizzanti, ha trovato nell’Is un “padre” che offre auto, donne, armi, soldi, avventure umane e sessuali, ma soprattutto li immette in un gioco all’interno del quale si sentono grandi, riconosciuti, importanti. Un “padre” che offre modelli di vita sempre vincenti. Sia che combattono sia che muoiono. Perché in vita godono di tolleranti protezioni, in morte godono del rispetto dei martiri. In vita si muovono all’interno di un mondo che li protegge, in morte diventano leggenda per altri giovani forse dello stesso quartiere. Insomma l’Is risolve i problemi adolescenziali del sesso, della morte, dell’avventura,della religione e del proprio ruolo nella società e ad accrescere il fascino dell’organizzazione fa tutto questo attraverso Internet e i linguaggi della modernità più avanzata.
Quale vertiginoso orizzonte l’Is propone a questi ragazzi quando fa vedere loro che essi possono legare il Belgio con la Siria, la guerra all’Europa con la realizzazione di un califfato in un paese del “terzo mondo”’? Non è questa la coniugazione in chiave ideologica del pensiero globale già realizzato attraverso la tecnologia di Internet? Quello che farai a casa tua, ha delle ripercussioni all’altro lato del mondo; quello che succede all’altro lato del mondo avrà delle conseguenze nel quartiere dove vivi. La simultaneità del vicino e del lontano, della vita che corre verso la morte e della morte che si allunga sulla vita fa vivere con più intensità le giornate passate a preparare ordigni, a pregare, oppure a fare proseliti nel quartiere.
Questo ottimismo cieco, senza limiti, criminale viene vissuto all’interno di cellule compatte che possono essere la famiglia o i compagni della stessa strada o della stessa scuola. Non è l’Islam che si è radicalizzato, è il radicalismo di una parte che è andata a stanare il pensiero più radicale dell’Islam e lo usa per i propri scopi.
Ricordo che all’epoca del terrorismo delle Brigate Rosse si diceva che l’organizzazione garantiva sempre agli affiliati la libertà. Essi non sarebbero mai andati in prigione o comunque sarebbero stati liberati appena catturati. L’organizzazione garantiva una sorta di impunità ad ogni delitto. Ed è la stessa impunità materiale e spirituale che l’Is garantisce ai suoi affiliati. Il paradiso in caso di morte, un benessere materiale in questa vita. Un vento di libertà e avventura che attraversa questa e l’altra vita,la morte è vista come un sacrificio che porterà dei benefici al martire ed un vantaggio alla causa, uccidendo delle persone che non hanno nemmeno il diritto di stare al mondo perchè sono infedeli, lontani dalla vera umanità. Perciò da eliminare. Anche con un’ecatombe nucleare.
Mentre scrivo queste righe, guardo le centinaia di libri impilati gli uni sugli altri nella mia biblioteca ed essi mi mostrano il dorso, duro, affilato, minaccioso, mentre sento un vento di parole provenire dagli scaffali. Dicono: noi eravamo il futuro divenuto passato, ora tu vivi nel tuo tempo che non è più il nostro. Il nostro dovere l’abbiamo fatto, ora tocca a te! Se possiamo essere utili, basta sfogliare le nostre pagine, però i problemi di oggi non si risolvono con le risposte di ieri, i problemi di oggi si risolvono con un linguaggio tutto da inventare, perchè il futuro è scritto con un alfabeto che nessuno conosce.
Cosa dice il futuro? Che quello che sta succedendo è un cambiamento epocale, siamo di fronte ad un mutamento degli equilibri mondiali che durerà a lungo, queste cose sono i dolori del parto di un mondo nuovo. Ma nessuno garantisce che il “nuovo mondo” sarà migliore del vecchio!
Il sonno della ragione genera mostri, ma le ragioni dei mostri rischiano di addormentare quanti non sono capaci di sconfiggere i loro incubi.
E tuttavia, una immagine vista qualche anno fa mi ritorna sempre alla mente. È la foto di una ragazza che si era tatuata la schiena con un codice a barre. Quelle linee fitte, magre o grassottelle indicano, come sappiamo, il prezzo di un oggetto, di una cosa che si può comprare o vendere. Messo sul corpo di quella ragazza non stava ad indicare il suo prezzo bensì che essa era divenuta cosa, oggetto, indifferente a chi poteva comprarla, indifferente a chi poteva essere il suo padrone. Quell’indifferenza era il rifiuto della vita, un grido contro l’eguaglianza fra vita e morte. Ma quel tatuaggio era sopratutto spettacolo, un farsi vedere, un modo di parlare con la propria pelle.