Periscopio (globale)
Memoria Kertész
Ricordo di Imre Kertész, lo scrittore ungherese che ha passato la vita a lottare: prima contro il nazismo (nel lager) e poi contro il comunismo. Usando solo l'arma della parole
Parafrasando e implicitamente rispondendo alla famosa frase di Adorno, secondo cui dopo Auschwitz non si potevano più scrivere poesie, in un discorso tenuto nel 1991 Imre Kertész dichiarava che in realtà questo non solo non è vero, ma che anzi dopo Auschwitz si dovrebbe poter scrivere unicamente di questo, e di nient’altro. A questa consegna, che già ne rispecchiava l’attività letteraria fino a quel momento, è rimasto fedele anche per il resto della sua vita, conclusasi un mese fa dopo una lunga malattia. A ottantasei anni, sopravvissuto al nazismo e al comunismo, quello staliniano e quello, forse ancor più penalizzante e discriminatorio, successivo alla rivolta d’Ungheria, Kertész ha dovuto infatti arrendersi al Parkinson, ma non senza lottare per anni contro il morbo, con lo stesso coraggio dimostrato lungo tutto il suo percorso esistenziale, coraggio che gli faceva annotare: «Il suicidio più adatto a me è incontestabilmente la vita».
Nato nel 1929 in una famiglia ebraica piuttosto modesta, Kertész fu deportato ad Auschwitz ad appena quindici anni, trasferito poi a Buchenwald, e infine liberato nove mesi dopo, nell’aprile del 1945. Come in tutti questi casi, la sua sopravvivenza è una specie di miracolo, favorito dall’intelligenza e dalla capacità d’adattamento. Tanto per fare un esempio, agli aguzzini che lo interrogano, il ragazzo Kertész dichiarerà di avere sedici anni anziché quattordici e di essere un operaio anziché uno studente, e sarà solo questo espediente, una nuova identità inventata a sangue freddo, a salvarlo dall’immediata esecuzione.
Il suo libro più famoso, scritto nel corso di ben dodici anni, Essere senza destino, è appunto dedicato all’esperienza dei campi di concentramento, raccontati dal punto di vista di un adolescente, senza alcun abbellimento retorico. La forza della narrazione è dovuta all’immediatezza quasi documentaristica, che situa il lettore sullo stesso piano dello spaurito protagonista, perso in un mondo di cui non conosce, e anzi spesso travisa, codici e meccanismi, ma nel quale riesce comunque a sviluppare delle strategie di sopravvivenza. Sebbene il libro non sia immediatamente autobiografico, esso si basa su un’esperienza esistenziale ineludibile, corretta da una riflessione serrata sull’assurdità del mondo e del destino umano.
Paradossalmente, Kertész ha trascorso la sua vita a negare che Essere senza destino e i romanzi seguenti (Fiasco, Kaddish per un bambino non nato e Liquidazione) fossero delle autobiografie; e l’ha fatto anche nel più autobiografico dei generi, il diario, che in lui è a volte mascherato da narrazione, ma resta pur sempre un diario. Fatto sta che il pubblico dei lettori, oltre al primo romanzo, ha apprezzato moltissimo il Diario dalla galera, appunto, ma anche una novella come Budapest, Vienna, Budapest (alla quale Peter Esterházy avrebbe poi aggiunto un racconto gemello, in italiano raccolti entrambi nel volume Verbale di polizia), in cui Kertész racconta le vicissitudini molto personali di un controllo doganale particolarmente sgradevole.
Il problema che Kertész mette tuttavia a nudo in tutta la sua opera non è tanto l’identità fra scrittore e personaggio, sempre discutibile, quanto la difficoltà di sentirsi parte di un’identità collettiva, di essere (e accettare d’essere) per esempio ungherese o ebreo, o semplicemente di aderire anche alla propria identità di un tempo, travolta dagli eventi e dalle vicissitudini che ci cambiano quotidianamente ma che, quando si configurano come guerra, prigionia o fuga, finiscono per trasformarci nel profondo. Kertész rifiuta consapevolmente l’equazione pressoché automatica che si stabilisce fra ebreo, vittima e bontà, come quella, contrapposta, fra tedesco, carnefice e malvagità. Sa bene (e scrive) che le folle non aderiscono ai totalitarismi, di destra e di sinistra, per un senso di rivolta, ma per puro conformismo. Sa bene (e scrive senza remore in chiusura del primo libro) che persino nel campo di concentramento c’erano momenti di felicità, e che la felicità è quindi “una trappola inevitabile”. Anche dover rientrare in certi schemi predisposti e premasticati è per Kertész conseguenza del totalitarismo culturale, cui si può forse sfuggire solo parlando di tutto tranne che di se stessi, tranne che del proprio piccolo ego. La dignità dell’essere umano è insomma superiore alla sua appartenenza a questa o quella popolazione, religione, cricca.
Resta però il fatto che la lingua batte sempre dove il dente duole, e che i diari, le interviste e l’intera opera di fiction finiscono per configurare quasi suo malgrado il ritratto di un’identità forte e ben precisata, non di rado polemica – si veda il suo rifiuto della spettacolarizzazione dell’olocausto in Schindler’s List o le denunce, non troppo dissimili da quelle espresse in tempi diversi da altri scrittori magiari come George Konrád o Sándor Márai, di balcanizzazione della situazione politica e culturale in Ungheria. (Paese il cui establishment culturale, fra parentesi, non l’ha mai troppo amato, malgrado il conferimento del premio Nobel nel 2002: la pubblicazione di Essere senza destino era stata vietata in un primo momento dall’editoria allineata al regime comunista e il libro era uscito prima nell’edizione tedesca; ma anche una volta pubblicato in Ungheria grazie alle prime liberalizzazioni, sarebbe stato comunque ignorato per oltre un decennio.) Autoesiliatosi in Germania, e in particolare a Berlino, suo luogo di residenza per lunghi anni, Kertész scopre in definitiva che la verità assoluta è inarrivabile o forse inesistente, e che tutt’al più si può lasciare una testimonianza di quel che si è stati e di quel che ci è toccato vivere. Sebbene questa conclusione riduttiva sembri non piacergli troppo, Kertész finisce per edificare un monumento alla testimonianza in particolare con il suo ultimo libro, un romanzo-diario incompiuto uscito nel 2014, che sarà pubblicato a breve da Bompiani con il titolo L’ultima locanda e che lui stesso considerava il coronamento dell’intera sua opera di scrittore.
L’esperienza del vivere si rispecchia del resto anche nel linguaggio narrativo, che in Kertész, nel dar conto della sua frequentazione critica di compositori come Mahler e Schönberg, vuole abbracciare tutti i registri per proporsi come l’equivalente della dodecafonia in musica: una lingua “atonale” e provocatoria, che rifugga tutti gli stereotipi, scavi il linguaggio dal suo interno, renda impossibile esprimersi come ci si esprimeva prima dell’olocausto, faccia della scrittura strumento di vita vissuta, e non di morte.
E a proposito di vita e morte: se la prima, come scrive nel Diario dalla galera, in fondo non è che un’ora perduta fra due attività importanti, un tempo da ammazzare, che ci piace ammobiliare di oggetti superflui, ecco che invece alla morte occorrerà prepararsi, affinché non ci sorprenda come uno stupido incidente, o come un delinquente che ci aspetta all’angolo della strada per derubarci di tutto.
Compresa la nostra inestimabile testimonianza.