Mario Dal Co
Un saggio Bollati Boringhieri

L’affare del ghetto

Donatella Calabi in un libro racconta i cinquecento anni del ghetto di Venezia. Un luogo di isolamento che produce ingiustizia ma anche identità condivisa. E soprattutto buoni affari per i cristiani

Il libro di Donatella Calabi, Venezia e il ghetto. Cinquecento anni del “recinto degli ebrei”, Bollati Boringhieri 2016 (15 euro) è stato presentato il 29 marzo 2016 all’Ateneo Veneto, a Venezia, davanti ad un pubblico foltissimo e attento. La presentazione si è inserita tra le iniziative che ricordano i 500 anni del “recito degli ebrei” e il pubblico in larga parte era pronto a partecipare al concerto inaugurale alla Fenice, con la Prima sinfonia di Mahler. A giugno si aprirà la mostra Venezia, gli ebrei e l’Europa 1516-2016, dove Donatella Calabi presiede il Comitato scientifico. E poi convegni, restauri, una rappresentazione del Mercante di Venezia nel campo del ghetto, che metterà a nudo l’intrinseca ambivalenza del testo di Shakespeare. Un programma pieno di significati che proiettano la riflessione dai 500 anni del ghetto sugli immensi temi di oggi.

Ma torniamo al libro della Calabi che parte da quel 29 marzo 1516, quando Zaccaria Dolfin, nobile veneziano, propone al Collegio della Repubblica di mandare tutti i giudei di Venezia in Ghetto Nuovo “che è come un castello”. Comincia una trattativa con i capi della Comunità, e si avvierà un processo lento di evoluzione dei rapporti tra la Comunità e la Repubblica, destinato a sviluppare l’insediamento iniziale di poche centinaia di abitanti alla dimensione di quasi 5000 abitanti alla metà del Seicento.

ghetto di venezia2Il libro analizza le dimensioni della “costruzione” del ghetto, luogo fisico e spazio sociale e spirituale di una Comunità che al suo interno si articola in tedeschi levantini, ponentini. E ciascuna di queste diverse provenienze della Comunità porterà a edificare, nel corso del Sedicesimo Secolo, le diverse sinagoghe, o scuole, come si chiamavano, in quegli anni di semiclandestinità, i luoghi di culto tollerati ma non ancora consentiti. E questa costruzione delle sinagoghe avviene mentre il ghetto cresce come popolazione, infittendosi, al tempo stesso, attraverso il frazionamento orizzontale e verticale degli spazi abitativi, e riempiendo di edifici gli spazi ancora liberi. Così aumentano le rendite degli affitti pagati ai proprietari cristiani ben oltre la maggiorazione del 30% riservata inizialmente dalla norma istitutiva «affittare agli ebrei si era rivelato molto vantaggioso» conclude Calabi ricordando l’osservazione cruda di uno dei proprietari: «Quando gli hebrei andassero via da Venezia si caveria molto poco, per essere loco picolo e di poco momento, et a ridurlo che li potessero habitar cristiani li bisognarabe spender molto denari» (p.38).

donatella calabi venezia e il ghettoEd il quadro delle convenienze, che la Repubblica riconosce a insediare gli ebrei, mentre vengono scacciati dalla Spagna e dal Levante, si completa con i mestieri permessi, capitolo straordinario in cui scopriamo che oltre alle attività di prestito a pegno, ben viste dalla Repubblica anche perché tengono lontani i monti di pietà troppo legati al Papato, si sviluppa le arti della stampa, e le professioni tra cui primeggiano i medici. La stampa, per la dimestichezza degli ebrei con il libro e per il ruolo delle sinagoghe come centri culturali, si crea un mercato di testi in ebraico, a cui si avvicina anche Aldo Manuzio che pubblica Poliziano in caratteri ebraici. Venezia è al culmine della sua proiezione come centro della cultura europea e mediterranea e un ruolo rilevante è svolto dal ghetto, a sua volta crocevia delle diverse tradizioni che lo animano. Nel primo secolo di vita del ghetto 80 medici ebrei si laureano a Padova, ottenendo alta considerazione e la deroga all’obbligo di restare nel ghetto di notte.

Il volume è illustrato da immagini e riproduzioni che forniscono documentazione della peculiarità dell’architettura del ghetto di Venezia, con le sua case alte, i piani ribassati, la tenace capacità di ricavare gli spazi delle sinagoghe da un contesto ricolmo di vincoli e di limitazioni. La tenacia di ricavare spazi abitabili per una popolazione crescente, da «loco picolo e di poco momento». E fa riflettere che nonostante queste enormi limitazioni, la coesione culturale e la diffusione delle conoscenze mediche producano esiti sorprendenti per la salute pubblica: la grande peste del 1630-31 miete un terzo di vittime nella popolazione non ebraica di Venezia, e “solo” il 15-20% nella popolazione del ghetto (p.110).

Con l’arrivo di Napoleone, finisce la discriminazione degli ebrei e l’isolamento del ghetto, ma non finisce immediatamente la sua coesione comunitaria, che lo tiene avvinto alla sua storia, con un processo di lenta assimilazione nel contesto della città indifferenziata. Anche l’area del ghetto viene investita dalla “sanificazione” ottocentesca, che porta a consolidamenti e restauri di notevole portata delle strutture più desolate e fragili. La rivolta antiaustriaca del 1948, guidata da Daniele Manin, di famiglia di origine ebraica, porta ad una adesione attiva di parte della Comunità, che diverrà vigilata speciale durante  l’occupazione austriaca.

La Calabi annota come il processo di assimilazione del ghetto alla città, come un quartiere qualsiasi, procede con l’equiparazione giuridica realizzatasi pienamente con l’entrata di Venezia nel Regno d’Italia nel 1866. Le famiglie più importanti escono dal ghetto e si insediano nell’area vicina alla Ca’ d’Oro e a San Felice o nel sestiere di San Marco, dove si insediano i professionisti.

ghetto di veneziaIl crollo del fascismo, nel luglio 1943 non comporta miglioramenti della situazione di oppressione determinata dalle leggi del 1938: anzi «due mesi dopo il presidente della Comunità, Giuseppe Jona, si suicida per non fornire l’elenco dei suoi correligionari alla Questura, che ancora in novembre  è impegnata a ricostruire i registri di nascita di matrimonio e di abiura, in modo da poter dare inizio alla deportazione» (p. 166).

Completa il volume una piccola appendice dedicata agli sguardi dei viaggiatori, che nei secoli hanno attraversato il ghetto di Venezia: sono piccoli tratti delle memorie di artisti e scrittori. Nel presentare il volume Paolo Rumiz ha insistito sugli interrogativi, che il libro lascia aperti. Il ghetto di Venezia è un’istituzione che evita l’assimilazione? È una garanzia per chi vi abita o per chi non vi abita? Come mai gli abitanti dei ghetti nelle città degli Stati Uniti manifestano una adesione alla cittadinanza americana superiore agli abitanti delle banlieue di Parigi o di Bruxelles?

Donatella Calabi ha ricordato che il ghetto di Venezia non è un modello da seguire, ma un’esperienza su cui riflettere e ha condiviso la citazione di Marek Edelman, secondo il quale confini e cannoni non possono fermare l’immigrazione, possono solo renderla più tragica e sanguinosa, più ingiusta e dolorosa, ostacolando l’affermazione di un’Europa della convivenza e della giustizia. Nella postfazione l’autrice rivela il motivo di fondo che ha guidato la sua ricerca sui 500 anni di vita del ghetto di Venezia: «Conoscere questa storia ci porta alla consapevolezza che l’identità ebraica è parte integrante dell’identità europea. Farlo ora, a ventisette anni dalla caduta del muro di Berlino, in un continente libero e riunificato, ma incapace di governare le nuove ondate di paura innescate da una quantità abnorme di migranti, può forse contribuire a cogliere la sfida che l’Europa ha di fronte a sé: quella di evitare una nuova stagione di muri di cemento e di barriere di filo spinato, quello di ovviare al pericolo di un mondo costituito da “un arcipelago di ghetti”» (pp.178-179).

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