La Domenica: itinerari per un giorno di festa
I ponti di Roma
L’artista sudafricano William Kentridge con i suoi murales sul Tevere li ha riportati alla ribalta. Parlano dei fasti passati, degli antichi Romani, dei papi e dei Savoia, della Repubblica del boom e di Jeeg Robot. Ecco perché meritano una certa considerazione, dal perduto Sublicio a Ponte Milvio…
I riflettori sui ponti di Roma li ha riaccesi William Kentridge, l’artista sudafricano. Che, sui muraglioni del Tevere anneriti dallo smog ha fatto di difetto virtù. Infatti, da ponte Sisto e ponte Mazzini, con la tecnica dell’idropulitura, insomma levando e lasciando le parti annerite, ha “disegnato” una serie di immagini evocative della storia della Capitale, riunite nel titolo Triumphs and Laments. Come uno stendardo che si sciorina in orizzontale, vediamo La Lupa e Romolo e Remo, Giordano Bruno, Anita Garibaldi, Anna Magnani in Roma città aperta. E ancora, il felliniano bagno di Mastroianni e Anita Ekberg ma in una vasca, non nella Fontana i Trevi; fino al corpo martoriato di Pasolini all’Idroscalo di Ostia. Il 21 aprile, Natale di Roma, si è inaugurato l’evento. Che ha portato sulle rive del Tevere autorità e cittadini, turisti e critici d’arte. Una festa che ha dentro un’ombra, perché le epifanie di Kentridge scompariranno quando il “grigio fumo” ricoprirà inevitabilmente le figure dell’artista. Ma insomma, questa riflessione sul passato della martoriata città è anche un invito a rileggere i suoi guadi sul fiume.
È il momento più bello per affacciarsi dai ponti. I rami dei platani sono cattedrali verdi, fino all’azzurro primaverile. I rami pendono verso l’acqua, che rimanda il colore e trema come le foglie. I turisti fanno macchia – calzoncini gialli, t-shirt blu, top rossi – sulla pietra dei monumenti, sul bianco del travertino. E i barconi sono stati appena ridipinti, azzurre le chiatte, lucido il legno come la pelata del piacione d’antan sdraiato e incremato sotto al sole per arpionare la tintarella prima degli altri. È il momento più bello per attraversare i ponti di Roma. Anche i difetti fanno atmosfera, dicono della Capitale. Sotto, i ciuffi d’erba lacustre. Sopra, le macchine in fila. La pietra dei muraglioni andrebbe ripulita, certi accampamenti vietati. Indizi di una capitale splendida e affannata che aspetta con il nuovo sindaco un riscatto al quale pochi credono.
I ponti invece parlano dei fasti passati, gli antichi Romani, i papi, i Savoia, la Repubblica del boom. Alla loro ombra i Tarzan, i poveri ma belli si tuffavano a mostrare i muscoli nella bracciata. Le comari li traversavano per arrivare a Campo de’ Fiori, al mercato del pesce del Ghetto, in faccia all’Isola Tiberina. Cinque anni fa la capitale ha inaugurato un altro ponte subito diventato famoso (fa da sfondo anche al film rivelazione di Gabriele Mainetti Lo chiamavano Jeeg Robot recentemente incoronato con ben sette statuette ai David di Donatello). È detto della Musica perché dalle pendici di Monte Mario porta al Maxxi e all’Auditorium di Renzo Piano. La costruzione che evoca, nei materiali e nella forma, lo scorcio di una nave è il ponte numero 35 della caput mundi. Che decise di farli, i ponti, quando l’insediamento sulla riva sinistra del Tevere s’era consolidato. Insomma, gli antichi romani si sentivano tanto potenti da non temere attacchi nemici. E tuttavia erano di legno i primi passaggi da un argine all’altro. Per poter essere subito distrutti, quando l’urbs se la fosse vista brutta. Mitico ponte Sublicio, il più antico, del quale ora si può solo favoleggiare. Era a valle dell’Isola Tiberina, sotto quell’Aventino che aveva tradito Remo. Tito Livio riferisce che a volerlo, nel VI secolo avanti Cristo, fu re Anco Marzio. Orazio Coclite ne fu un eroe. E che fosse di legno lo dice il nome: Sublicio viene da sublica, tavola di legno in lingua volsca. Nel 1914 lo ricostruì Marcello Piacentini: tre arcate, ciascuna di 105 metri, a collegare Testaccio con Porta Portese.
Questo punto del Tevere riunisce i passaggi più suggestivi. Ecco Ponte Rotto, che si chiamava Emilio. Ridotto a rudere, è un miscuglio di epoche: prima versione nel terzo secolo avanti Cristo, ricostruito nel 142 a.C. I piloni sono originali, l’arcata del Rinascimento. La sua funzione la fa adesso Ponte Palatino, di fine Ottocento. Lo chiamiamo Ponte all’inglese, perché si imbocca nella parte sinistra. Fabricio e Cestio sono i ponti dell’Isola Tiberina. Quello di Tor Boacciana o della Scafa, vicino a Ostia Antica, oltrepassa il Tevere nel punto più vicino alla foce. Come si vede, i romani se ne infischiano dei nomi ufficiali dei loro ponti. Chiamano «di ferro» – il materiale delle arcate – quello dell’Industria, a San Paolo. E hanno rinominato Matteotti quello delle Milizie e poi Littorio. Unisce Prati al Flaminio, digrada piacevolmente verso la riva con una scalinata ad arco, lo scalo de Pinedo. Fu ammazzato qui, dai fascisti, Giacomo Matteotti, dopo aver pronunciato alla Camera il discorso contro i brogli elettorali. C’era una volta pure il ponte del Soldino. All’altezza di San Giovanni dei Fiorentini, lo costruì nell’800 in legno e ferro una società francese che faceva pagare il pedaggio. Nel 1941 fu demolito e rimpiazzato da Ponte Principe Amedeo. Semplicemente «Vittorio» invece che «Vittorio Emanuele II», il ponte cominciato dai Savoia nel 1886 e finito nel 1911.
Storia e poesia s’intrecciano a Ponte Milvio, apostrofato come «Mollo» (nella foto sopra). Se ne comincia a parlare nel 207 prima di Cristo, si riedifica in muratura cento anni dopo. Nell’Ottocento si aggiunge la torretta del Valadier. Ha fatto tendenza (troppa) con i lucchetti dell’amore. Giochino Belli lo sceglie come sfondo di due sonetti, intitolati Er duca e ’r dragone. Ride, il poeta, dell’avventura del duca di Poli, Marino Torlonia. È il 1835, passa in carrozza su Ponte Milvio, apostrofa con un “ubbriaco” un dragone pontificio. Questo gli punta addosso la pistola. Allora il duchino «…S’arza, se butta ggiù ddar carrozzino,/ mette mano a una viggna, entra ar casino,/ ce se serra, eppoi disce: Me ne caco…».