Visto al Vascello di Roma
Goldoni in bianco
Andrée Ruth Shammah ha costruito, intorno a "Gli innamorati" di Goldoni, un delizioso omaggio all'appassionante banalità dell'amore. Con una compagnia di bravissimi attori, da Marina Rocco a Matteo De Blasio
Due giovani innamorati litigano a sangue in continuazione; alla fine si sposano. Come fa ad appassionare una storia simile? Eppure è la trama di centinaia di commedie di successo. Non dipende nemmeno da come l’autore declina la trama: funziona sempre. Prendete Gli innamorati di Goldoni: una storia d’amore quasi stucchevole per com’è autoreferenziale (solo di quello si parla, non c’è trama, né sviluppo psicologico…). Eppure Gli innamorati è uno dei testi più fortunati di Goldoni; ma niente a che vedere, per esempio, con i suoi modelli diretti: la Bisbetica domata e Molto rumore per nulla di Shakespeare. E allora? Andate a vedere l’edizione che ne ha tratto Andrée Ruth Shammah e capirete: la storia dei due giovani che litigano e alla fine si sposano è un grumo possente di vitalità. Vitalità pura. Quasi banale. Ecco: la banalità della vita.
Così l’ha intesa – giustamente – la regista che ha confezionato uno spettacolo ormai alla sua centesima replica e giunto finalmente a Roma, al Vascello, fino a domenica 17: non perdetevelo!
L’amore, nelle migliore delle ipotesi, è una faccenda da canzonette: diretta, senza fronzoli, senza ideologie. Tutta palpiti e passioni. Goldoni, mentre meditava il suo addio a Venezia, mentre compitava il catalogo del suo pessimismo legato al fallimento della rivoluzione borghese, compose (1759) questa commedia lieve e amara suo malgrado. Nessuno dice la verità, tutti dissimulano: chi per una ragione chi per un’altra. Non più donne di garbo, non più servitori in grado di turlupinare i propri padroni… solo simulacri di menzogne: gli innamorati innanzi tutto, ma anche lo zio borghese spiantato, l’avvocato attento solo alle forme o i servi capaci soltanto di spillare qualche quattrino in più ai pochi (rimasti) in grado di pagare. Figuratevi che qui – udite udite – l’unico che compia una buona azione è un conte: sì, proprio uno di quegli aristocratici che in genere Goldoni spediva all’inferno ancor prima di cominciare a mettere il Mondo in Teatro. Perché in scena l’amore basta a se stesso: non si fa metafora d’altro.
E dunque, nella commedia di Goldoni, in tanta separazione tra l’essere e l’apparire in società, germoglia la semplicità vitale dell’amore: inarrestabile motore di applausi e soddisfazione nel pubblico. Lo spettacolo che Andrée Ruth Shammah ha realizzato (con l’ausilio basilare di Gian Maurizio Fercioni per la bellissima scena e i bianchi costumi, di Gigi Saccomandi per le luci, di Michele Tadini per le musiche) lo testimonia in pieno. Un concentrato di vitalità senza interruzioni. Il tratto in più di questa messinscena sta, però, nel lavoro compiuto sul testo (la drammaturgia porta la firma di Vitaliano Trevisan): da un lato ci sono interpolazioni dall’introduzione di Goldoni al copione, dall’altro c’è qualche chiosa metateatrale che consente agli interpreti di entrare e uscire dai suoi personaggi, come in un piccolo gioco di straniamenti che si accorda a una regia che tiene quasi sempre in scena tutti gli attori (ricordate l’Arlecchino di Strehler?) a svelare al pubblico l’artificio della finzione teatrale. Non stonano troppo, nemmeno, i piccoli cenni contro il femminicidio (Fulgenzio, l’innamorato protagonista, talvolta ci va giù duro con la sua Eugenia) inseriti ad arte per segnalare che la concezione della donna del Settecento era un po’ diversa da quella che se ne ha oggi… Per di più Trevisan non si perita di limare alcuni settecentismi della magnifica lingua di Goldoni: anzi li amalgama in una lingua teatrale comunicativa che non rischia mai d’essere banale italiese d’oggi. E questo, sia detto a gran voce, è vero pregio del lavoro fatto dal dramaturg.
Insomma: un gran lavoro collettivo. Al quale, però, portano acqua soprattutto gli interpreti. Tutti: a cominciare da Marina Rocco e Matteo De Blasio che danno possanza tecnica e straordinaria energia vitale i due innamorati nevrotici. Ma sono bravissimi anche gli altri: Roberto Laureri, Elena Lietti, Alberto Mancioppi, Silvia Giulia Mendola, Umberto Petranca e Andrea Soffiantini; è davvero inconsueto vedere all’opera una compagine d’attori così affiatati e così analogamente bravi. Averli condotti a questa omogeneità è sicuramente il merito maggiore della regista. Troppo a lungo, malauguratamente, latitante da Roma.