Periscopio (globale)
Beauvoir e i vecchi
A trent'anni dalla morte della grande Simone de Beauvoir, la sua poetica (non solo politica) è terribilmente attuale: la vecchiaia non è che un malinteso
Un pensiero consolante: ci sono scrittori che, malgrado tutto, restano e resistono. A trent’anni dalla scomparsa, avvenuta il 14 aprile 1986, sembrerebbe per esempio che l’interesse per Simone de Beauvoir sia rimasto costante, almeno in Italia. Lo testimonia la riedizione di ben due dei suoi libri nel 2016, il saggio Il secondo sesso per Il Saggiatore e il libro di memorie L’età forte per Einaudi. Sempre per Einaudi, l’anno scorso era stata la volta di Una morte dolcissima, scritto nel 1964 e dedicato alla malattia e alla morte in clinica della madre, un tema universale cui si ricollegano anche due testi – il dittico composto da Une femme e Je ne suis pas sortie de ma nuit – di un’altra scrittrice francese di cui abbiamo parlato qui qualche mese fa, Annie Ernaux. Ancora per Einaudi, nel 2014 della Beauvoir erano stati ripubblicati i racconti di Una donna spezzata e le Memorie di una ragazza perbene, prima parte della tetralogia autobiografica che prosegue con la già citata Età forte e termina con La forza delle cose e A conti fatti.
Si è molto (forse troppo) parlato della Beauvoir pensatrice, femminista, attivista politica, viaggiatrice, compagna e complice di Jean-Paul Sartre (ma anche, diversi periodi della sua vita, di altri colleghi scrittori, come Nelson Algren). Le sue posizioni politiche e sociali sono ben note e hanno dato luogo, fin dagli anni Trenta, quando iniziò a insegnare, a polemiche interminabili. Da parte mia, anziché ripercorrere vita e opere, in questo breve omaggio mi concentrerò invece sul tema principale della sua poetica degli ultimi anni, diciamo dalla metà degli anni Sessanta, il tema della vecchiaia, e su quello che considero, proprio per la sua eccentricità e pregnanza, un testo-cerniera. Si tratta di un racconto, scritto nel 1965 e pubblicato in Italia solo nel 2014 da Ponte alle Grazie con il titolo Malinteso a Mosca. Come spiega Isabella Mattazzi nella sua illuminante postfazione, in origine il lungo racconto avrebbe dovuto far parte della raccolta di novelle Una donna spezzata, poi pubblicato nel 1967 da Gallimard. All’ultimo momento l’autrice decide però di ritirarlo, di scomporlo, di rimaneggiarlo fino a farne un testo completamente diverso (in prima persona, anziché in terza, e tutto incentrato sulla protagonista femminile) che pubblicherà con il titolo L’età della discrezione. In un cassetto rimane tuttavia, seminascosta, la versione originale, che verrà riesumata nel 1992 per una rivista universitaria, e la cui pubblicazione, benché tardiva, consente di lumeggiare alcune delle ossessioni narrative e concettuali della scrittrice. Il sospetto è che il racconto, così com’era, le sia sembrato troppo personale e troppo trasparente; mentre qualunque scrittore, pur parlando in definitiva sempre di sé, cerca in tutti i modi di nascondersi dietro maschere che allontanino i curiosi dalla sua vita privata. E quando questo non gli riesce, il testo finisce appunto in un cassetto.
Nell’opera della scrittrice alcuni temi emergono costantemente: il nesso fra responsabilità e libertà individuale, l’impegno politico, le dinamiche di coppia, la condizione femminile. Ed ecco che in questo piccolo libro, appena un centinaio di pagine, essi riaffiorano proprio tutti, strettamente intrecciati in una fitta rete di rimandi interni.
A primeggiare è però, come dicevo, il tema della vecchiaia, che caratterizza tutta l’ultima fase della vita e della creazione artistica. Dicevamo poc’anzi di Una morte dolcissima, uscito appena un anno prima di Malinteso a Mosca. Ma vanno citati soprattutto il saggio La terza età, del 1970, in cui certe suggestioni e preoccupazioni del volumetto di cui parliamo qui sembrano confluire, e successivamente, nel 1981, il volume La cerimonia degli addii, dedicato alla morte di Sartre.
In Malinteso a Mosca Simone De Beauvoir racconta una fase particolare nella vita di una coppia, il lento declino verso una vecchiaia che resta inaccettabile. La trama è semplicissima, lineare: all’inizio degli anni Sessanta André e Nicole, professori in pensione, intraprendono un viaggio a Mosca per andare a trovare Maša, figlia di primo letto di André, che si è sposata con un russo e fa la traduttrice; nel corso del loro soggiorno un futile alterco li porterà sull’orlo della separazione. Tutto qui. Scritto in terza persona, il racconto attribuisce in pratica la stessa importanza ai due protagonisti (in cui s’intravedono con grande verosimiglianza Sartre e la stessa Beauvoir), analizzandone le motivazioni, le pulsioni e soprattutto la sofferenza al momento di confrontarsi con l’avanzata inesorabile della vecchiaia. Soprattutto nelle parti riferite a Nicole, meno impegnata di André nella realizzazione concreta dell’ideale politico e più incline alla riflessione e alla rievocazione del passato, la vecchiaia è letta come obsolescenza dell’attrattiva e dell’amore fisico, ripiegamento sul nucleo intimo e spesso inabbordabile di cui ciascuno di noi sembra consistere, senso di perdita e di fallimento. “Essere andati in pensione suonava un po’ come essere finiti in una discarica” – non è, questa, che una delle tante riflessioni attribuibili a Nicole, la quale soffre della classica sindrome dell’insegnante, quella di non veder mai invecchiare i propri allievi e di non accorgersi quasi della propria senescenza, fino al momento in cui la scoperta diventa ineludibile. L’osservazione è resa con notevole finezza: “Per anni e anni, le sue classi le avevano dato l’illusione di non cambiare mai età: ogni autunno le ritrovava, sempre giovani, e sposava del tutto la loro immobilità. Nell’oceano del tempo, era una roccia battuta da onde sempre nuove, una roccia che non si sposta, che non si consuma mai. E adesso invece il flusso l’aveva trascinata con sé, l’avrebbe trascinata con sé fino a sfociare nella morte.”
Anche la figura della figlia di André, Maša, viene declinata da Nicole unicamente in funzione della dicotomia giovane / vecchio, passato / futuro, promessa / disillusione, dicotomia che la vede naturalmente perdente: “Mantenere vitalità, allegria, presenza di spirito, significa rimanere giovani. Premi della vecchiaia sono quindi routine, malinconia, rimbambire piano piano. Dicono: la vecchiaia non esiste, non è nulla; o perfino: è bella, e commovente; ma quando poi la incontrano, la mascherano pudicamente sotto parole menzognere. Maša diceva: lei è così giovane, ma l’aveva presa sottobraccio. In fondo era proprio per causa sua che Nicole, da quando era arrivata, sentiva così profondamente la sua età.”
Quello che aspetta invece André, che appena arrivato in Russia è accolto con calore dalla figlia, è “un’avventura che nello stesso tempo lo esaltava e lo riempiva di spavento, l’avventura della scoperta.” Anche lui, tuttavia, deve rendersi presto conto del trascorrere del tempo e prova quasi spavento quando scopre di non riuscire più a riconoscere se stesso: “Quel professore, quel padre di famiglia, quel cinquantenne, non erano davvero lui. (…) Lo scandalo è il ritrovarsi definiti, conclusi, fatti, è quando gli istanti effimeri si addizionano uno all’altro e formano intorno a voi una banda che necessariamente finirà per prendervi in trappola.”
Il vero malinteso non è quindi quello che dà origine alla discussione fra i due protagonisti, ma l’irruzione, non tanto improvvisa quanto devastante e duratura, di una condizione umana alla quale non ci è concesso di predisporci serenamente, che viviamo anzi con sofferenza e come un maligno scherzo del destino.
Per parafrasare un altro titolo della scrittrice, è la preparazione della cerimonia degli addii a non persuaderci, a non volerci proprio riuscire.