La politica culturale della Capitale
Arrivederci, Roma!
Senza grande clamore, il Vittoriano ha cambiato gestione: dopo vent'anni di ricerca di identità, ora l'ala museale passa ad Arthemisia. L'intenzione, forse, è puntare più su eventi a effetto che sulla cultura
Cambio della guardia al Vittoriano. Esce di scena Alessandro Nicosia, l’imprenditore che l’ha gestito per più di venti anni, rilanciandolo come spazio museale e centro espositivo a tutto campo. Il monumento torna nelle mani del Ministero dei Beni Culturali, che l’ha affidato in cura ad una società sotto il suo controllo, la Ales, alla cui guida ha appena chiamato Bruno De Simoni, ex direttore del Palaexpo. Non se ne conoscono le intenzioni. Non si sa neppure se verrà mantenuto l’ingresso gratuito alle terrazze. Si parla di un bando per mettere a gara e riassegnare al migliore offerente la gestione degli ampi spazi interni (la concessione era scaduta e Nicosia regnava in regime di proroga),che includono il museo del Risorgimento e il sacrario delle bandiere. Ma gira anche l’ipotesi che il ministero voglia mantenere sotto la sua cabina di regia il complesso, secondo una strategia di centralizzazione che ha ispirato molte mosse del ministro Dario Franceschini, come lo scorporo e l’indebolimento della soprintendenza archeologica. La cultura? Deve portare soldi, autofinanziarsi ed eliminare contraddizioni, dissensi, situazioni di conflitto.
L’interregno non è privo di conseguenze: chiuso il book shop al piano terra dove i visitatori potevano comprare tra le altre cose la mappa del monumento e i testi che ne ripercorrono la lunga e tormentata storia, chiuso il museo dell’emigrazione che era stato inaugurato una decina di anni fa, mettendo in vista documenti, foto e cimeli che ricostruivano un secolo di storia che gli italiani hanno in gran parte rimosso. Sembra che l’intenzione sia di trasferirlo a Genova, in una sede che però non è stata ancora attrezzata.
Nicosia lascia anche una seconda importante ribalta: l’ala Anni Trenta, progettata lungo la scarpata che porta al Campidoglio dall’architetto Brasini, che aveva trasformato in un palcoscenico per grandi mostre, dedicate in particolare ai maestri del secondo Ottocento e primo Novecento. A rilevare la gestione che sarebbe scaduta nel 2018, è la società Arthemisia, un’azienda che sta scalando a grandi passi la classifica del circuito espositivo privato e in questo scorcio dell’anno – a conferma della sua inarrestabile espansione – sta facendo circolare in Italia e all’estero una dozzina di mostre d’alto richiamo. Il passaggio di consegne è stato sigillato dall’inaugurazione di due nuove mostre, Mucha e Barbie, una curiosa accoppiata che abbiamo recensito qualche giorno fa (clicca qui per leggere l’articolo).
Solo qualche vago accenno sui giornali: il pubblico romano era praticamente all’oscuro che le sale che stava visitando avevano cambiato padrone e programmazione. Un segnale evidente dello scollamento che caratterizza l’organizzazione della cultura in città e sta precipitando Roma verso il fondo della classifica: una capitale, che salvo poche eccezioni, ha rinunciato al suo ruolo guida nella produzione di eventi e sta relegando ad ordinaria e sciatta amministrazione persino i suoi tesori antichi. Un panorama desolante quello degli spazi, soprattutto quelli controllati dal Campidoglio: il Palaexpo ancora commissariato e programmato a singhiozzo con iniziative scadenti, le Scuderie del Quirinale che tengono ancora il passo ma stanno perdendo vistosamente pubblico e attenzione, il Macro, retrocesso a costola distaccata della soprintendenza che ha perso slancio e autonomia, aprendo una voragine d’offerta sul versante del contemporaneo.
Colpa della crisi. Ma non sono solo i soldi a mancare. Manca alla città una politica culturale. Scelte al risparmio. Poche o nessuna idea. E quasi totale assenza di trasparenza sulle decisioni in atto e su quelle da prendere. Come appunto sta avvenendo col Vittoriano, che pure per le sue valenze simboliche e per le sue dimensioni è senza dubbio uno dei punti di riferimento più importanti per gli appassionati d’arte e di storia della nostra città, una trincea chiave della cultura romana. Nessuno che abbia sentito il bisogno di fare un bilancio sul ventennio di Nicosia. Molte delle mostre che ha promosso possono far discutere e far storcere il naso, ma a ripassarne uno dopo l’altro titoli e autori portati alla ribalta, si capisce che hanno rappresentato un prezioso tentativo di divulgazione. Un modo per riportare Roma nei circuiti di serie A delle grandi mostre. Un contributo alla costruire di una platea più consapevole, più capace di leggere le grandi svolte dell’arte moderna, addestrarla ai nuovi linguaggi del contemporaneo. Ma il merito più grande di Nicosia è stato quello di aver restituito al Vittoriano, un colosso contestato e in letargo, una sua identità, assecondando l’impulso che arrivava dal Quirinale. Prima con Scalfaro, che l’ha riaperto, poi soprattutto con Ciampi che più si è battuto nel suo settennato per ridare voce e forza d’attrazione a quel colosso di marmo bianco, bandiera del nostro Risorgimento. Altri anni: abile e smaliziato Nicosia nel trovare nei palazzi della politica sponde e aiuto. Un metodo che la crisi della politica e il tracollo delle strategie culturali, da Alemanno a Marino fino all’attuale commissario, hanno finito per sterilizzare e insabbiare.
Si cambia marcia, dunque. E il Vittoriano, almeno quell’ala ancora in funzione passata ad Arthemisia, cambia pelle. «La società – spiega Jole Siena, la direttrice – vuol farne la sua casa madre. ll cardine della sua strategia di espansione, che considera fondamentale il controllo di una serie di sedi in Italia e all’estero. Il Vittoriano si aggiunge a due palazzi storici che abbiamo acquisito a Bologna e a Genova, al palazzo Reale di Milano di cui curiamo gran parte del cartellone e a due nuovi centri espositivi che stiamo per aprire a Parigi e a Madrid. Solo con ambizioni e visioni di questa scala l’attività espositiva può rendere e lasciare il segno. Certo, intendiamo sfruttare ogni forma di sinergia possibile. L’intento però è di fare del Vittoriano, non una tappa di mostre in transito, ma un trampolino di lancio di anteprime doc. No, per scaramanzia nessuna anticipazione. Tra qualche giorno illustreremo il cartellone, già pronto per almeno un triennio: tre o quattro grandi mostre l’anno al piano nobile, associate ad altre di taglio più familiare nelle sale del piano terra. Curando l’impostazione scientifica, ma anche gli allestimenti. Il pubblico romano è pigro, difficile da conquistare. Anche con eventi costosi e d’alto profilo. La stessa mostra, ad esempio quella di Memling che abbiamo fatto esordire alle Scuderie del Quirinale, ha messo in fila a Milano il doppio dei visitatori. Bisognerà risalire la corrente».
Per ora sono promesse. E il biglietto da visita dell’esordio non è proprio incoraggiante. Buona e ben costruita la mostra su Mucha, scadente e confezionata senza alcun taglio critico quella di Barbie. Se ne deve essere accorto anche il pubblico. Contrariamente alle previsioni, la prima alla lunga batte per biglietti venduti la seconda. L’arte consuma la sua rivincita sul merchandising.