A Bologna, a palazzo Pepoli
Street art smurata
Il mondo della street art italiana è in guerra contro una mostra (mal riuscita) che ha tolto le opere dalle strade per cercare di storicizzarle. Un'operazione sbagliata, stigmatizzata da Blu che ha "cancellato" una sua opera
«Se è legale non è writing»: è il Vangelo secondo Sniper, il writer senza volto protagonista del libro Il cecchino paziente di Arturo Pérez Reverte. Alfiere dell’antisistema, combatte a colpi di graffiti la sua guerriglia urbana «per lanciare sulla città dubbi come se fossero bombe. L’arte attuale è una frode gigantesca e sono i corvi del mercato i veri padroni», sostiene. Lui si sottrae alla logica del business e “spara” su chi vuol portare la rivoluzione nel salotto buono della conservazione. Dalla letteratura alla cronaca. Con uno Sniper in carne e ossa, Blu, che ha puntato il dito contro la museificazione e la privatizzazione dell’arte di strada, contestando la mostra “Street Art. Banksy & Co”, prodotta da Genius Bononiae e curata da Luca Ciancabilla, Christian Omodeo e Sean Corcoran. Dietro tutto c’è Fabio Alberto Roversi Monaco, presidente del network di musei cittadini che fa capo alla Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna. A pochi giorni dal taglio del nastro a palazzo Pepoli, l’artista di Senigallia – il Guardian lo ha inserito tra i dieci migliori street artist al mondo – ha coperto con una colata di grigio la sua Battaglia che campeggiava sul muro dell’Xm24 di Bologna. Un atto clamoroso e provocatorio, che ha giustificato sul blog blublu.org con la sferzata: «A Bologna non ci sarà più Blu e non ci sarà fin quando i magnati magneranno. Per ringraziamenti e lamentele sapete a chi rivolgervi». Sulla parete resa nuda dalle pennellate autoinflitte recita l’epitaffio: «Rimpianto sì, ma in ogni caso nessun rimorso», ispirazione è il romanzo di Pino Cacucci, Nessun rimorso, sulla vita dell’anarchico francese Jules Bonnot. Lo scrittore è stato tra i primi ad applaudire a questo “geniale” gesto, più politico che artistico, che, «nel letargo di indifferenza totale è una botta di rivitalizzazione».
La causa scatenante, il pomo della discordia, il murale, strappato e “appropriato”, che prima stava alla Casaralta. Ora è imbalsamato all’interno della mostra accanto a lavori su carta di Blu. Sembra su cemento, ma è stato trasportato su tela, trasfigurato, un pezzo di intonaco scorticato senza più anima. La protesta è corsa su Facebook all’urlo di “Io non partecipo” e l’invito ad una pacifica manifestazione, il giorno dell’inaugurazione, in piazza del Francia, tutti vestiti di blu, le bombolette spray “per fare musica”, sbattendole. Col paradosso della polizia in tuta antisommossa a proteggere “opere” di quegli stessi autori che, se colti in flagrante a “sfregiare” proprietà pubbliche, avrebbero denunciato e multato. Cosa su cui ironizza Omodeo: «Prima gli artisti dipingevano i muri e le istituzioni le cancellavano; ora gli artisti cancellano e le istituzioni salvano».
Manifesto del dissenso contro “l’operazione arrogante” di palazzo Pepoli è l’accusa lanciata in rete dal collettivo Wu Ming: «La mostra è il simbolo di una concezione della città che va combattuta, basata sull’accumulazione privata e sulla trasformazione della vita e della creatività di tutti a vantaggio di pochi. Di fronte alla tracotanza da landlord, o da governatore coloniale, di chi si sente libero di prendere perfino i disegni dai muri, non resta che far sparire i disegni». Centinaia e centinaia le adesioni, dagli artisti agli intellettuali ed agli storici dell’arte. «Fabio Roversi Monaco, illustre potente e arrogante iscritto alla massoneria ha deciso che per farsi strada nel mondo delle celebrità sarebbe stato utile anche staccare le opere degli street artist sparsi sui muri della città di Bologna – scrive sul suo sito l’artista e critica militante napoletana Maya Pacifico –. Detto, fatto… le opere sono ora in mostra senza chiedere il consenso agli autori… strappate e confiscate. Blu si è opposto e prima di essere espropriato le ha cancellate destando un certo clamore mediatico». L’artista Exit Enter incalza: «La mostra ha trasformato l’arte di strada gratis per tutti in arte a pagamento per pochi. Hanno voluto snaturare questa forma di espressione». Mentre Ericalcaine, altra firma eccellente del complesso mondo dei graffiti, posta il disegno a china di un ratto, titolo Zona derattizzata, e la spiegazione «area bonificata da tombaroli, ladri di beni comuni, sedicenti restauratori senza scrupoli e curatori prezzolati».
Da parte sua l’associazione Serendippo ha organizzato, nell’ambito del più ampio progetto Rusco, una contromostra, quaranta writer italiani e stranieri che hanno “graffittato”, complici i proprietari, sedicimila metri quadri dell’ex Zincaturificio bolognese di via Stalingrado 63, su cui pende la spada di Damocle della demolizione. Una grande festa per esprimere solidarietà al Banksy italiano, per far capire «che siamo vivi, che non c’è solo il grigio» e per ribadire lo slogan «muro pulito popolo muto». Tra giovani e meno giovani, mascherati o a viso aperto, in questo angolo abbandonato e degradato di Bologna illuminato da vernice variopinta c’è anche l’assessore comunale Davide Conte. «Non sono un esperto – dice – ma vedo che qui ora c’è movimento. L’atto di Blu pone delle domande alla città e questa è la prima risposta forte. Intercettare la street art per le istituzioni non è facile; non bastano i permessi, i fondi, le liberatorie». Propone un convegno: «Dobbiamo capire come adeguarci, c’è la necessità che la street art sia patrimonio pubblico». E l’assessore regionale Massimo Mezzetti ipotizza un centro di documentazione – Maria Paola Landini, ex preside di Medicina, ha già messo a punto un archivio con 25mila immagini di graffiti a Bologna – in cui «questa forma d’arte va immortalata con fotografie e video». Entrambi sembrano non condividere appieno la formula Genius Bononiae: «Le mostre vanno fatte dentro un percorso partecipato, almeno con gli autori». Sulla stessa scia il sindaco Virginio Merola: «Un errore non avvisare Blu, artista suo malgrado nella rassegna di palazzo Pepoli».
Muri dipinti, muri strappati, muri salvati, muri addomesticati. L’arte di strada senza strada cos’è? È morta come si dice, nella fluidità dei linguaggi contemporanei, della pittura? «C’era una volta una razza speciale di persone chiamate writers. Hanno combattuto una fiera battaglia contro la società. L’esito è ancora ignoto»: è un graffito newyorchese di Ken del 1986, lo cita Pérez-Reverte nel suo libro profezia sui mutamenti già in corso, il sistema si innamora di quello che ignorava o osteggiava perché può costituire la nuova gallina dalle uova d’oro; gli stessi artisti “abusivi”, che lasciano le loro tracce agili e silenziosi come ombre, scelgono ipocritamente o pragmaticamente vie parallele, innalzano il vessillo dell’illegalità e nello stesso tempo lavorano per multinazionali come la Nike, partecipano a mostre, dialogano con galleristi e collezionisti. Un esempio è lo spazio aperto da poco nel centro storico di Milano, dedicato esclusivamente alla street art e che ha inaugurato con un veterano del genere come Black Le Rat. L’arte del conflitto ha generato conflitti, riaperto il dibattito, lo rileva la critica Silvia Evangelisti, sulla centralità dell’artista, e sulla mai irrisolta questione di una convivenza possibile e necessaria, nei tempi incerti dell’oggi, tra etica, estetica e politica. Non ultimo, sollecita risposte anche dal punto di vista giuridico, proprio alla luce del caso Bologna, dei “cimeli” esposti, scorticati e restaurati “per salvarli” e di chi come Blu, distrugge le sue opere per affermare che non sono nate per essere conservate. «La nostra arte è effimera e deve rimanere sui muri – chiarisce Davide Atomo Tirelli – se cambia posto perde senso». Il nodo è quello del diritto d’autore: i muri dipinti di chi sono? Dell’artista a cui indubbiamente va riconosciuta la proprietà intellettuale, dell’eventuale committente o della collettività che ne fruisce? Poki è su questa linea: «Ogni disegno non è collocato per caso in un posto, ma si inserisce nell’ambiente in cui è stato creato, è legato ad esso, alle persone che vivono nei dintorni». Così come il sociologo Alessandro Dal Lago che insiste sul fatto che la parola debba essere dei cittadini. E ne sono convinti gli abitanti delle Fornelle, tra i quartieri più dimenticati e difficili di Salerno, che hanno fatto dei muri d’autore che suonano di versi colorati e che spuntano su ogni pietra – l’imput è della Fondazione Alfonso Gatto – la loro piccola grande rivoluzione nel nome dell’identità da recuperare. Un museo per il popolo, a cielo aperto, familiare: lo è anche Tor Marancia, a Roma, riconvertito creativamente da venti murales monumentali.
Ma veniamo alla tanto contestata mostra, proviamo a leggerla così com’è, con la mente sgombra dalle polemiche. Pur lasciandosi prendere dalle suggestioni evocate da firme del rango di Banksy, Haring, Basquiat, Rusty, Dondi White, Lady Ping, Os Gemeos, Invader, Paolo Buggiani, Lee Quinones, dai capolavori della collezione di Martin Wong donata al Museo della Città di New York, il bilancio è scadente e velleitario. Da bocciare l’idea forzata di storicizzare un’espressione artistica, sia pur datata mezzo secolo ma ancora viva, attuale, resistente. Da condannare gli stereotipi sullo streetpittore, il mescolare le cose più disparate come osserva Michele Smargiassi di Repubblica: «Disegni fatti per la strada, per restarci e morire lì; disegni che gli stessi artisti hanno preso dalla strada e venduto sul mercato; disegni e oggetti fatti per il mercato che in strada non c’è mai stato». «Un cane/cartone animato, due poliziotti che si baciano o uno squalo fatto di banconote – fa notare Flavio Fanelli – sarebbero dei soggetti insulsi per una tela, ma giganteggiando su un muro degradato si ammantano di un certo non so che che dona loro uno status differente». Ridicolo il tentativo di classificazione – ma è la tentazione-ossessione di tutti gli storici dell’arte – tra artwork (le opere su supporti mobili dalle tavole di compensato ai cartoni da pizza) e street piece (pareti staccate e pannelli rimossi dalla strada). Leoni in gabbia come allo zoo. Così appaiono, malinconicamente, i 250 pezzi spalmati sui quattro piani di vetro e metallo del cortile interno di palazzo Pepoli, una parte del piano nobile e un paio di sale dell’ammezzato. Fanno tristezza quei ratti coperti da vetro, sotto vuoto, la rivolta sterilizzata. Erano l’icona del writer che sporca e fugge, a cui tutti danno la caccia. Ora sono sotto vuoto, l’insurrezione semantica urbana sterilizzata. Profumano della polvere di museo etnografico le tag incorniciate, sembrano resti di civiltà sepolte da studiare e interpretare come geroglifici. È tutto una mistificazione che si vuol rivestire di cultura. Perfino il vandalismo di chi imbratta è elevato ad arte. Nella sala grande c’è l’installazione site specific della premiata ditta Cuoghi Corsello (lei, Monica, è l’autrice della paperella beffarda dell’ex Link di via Fioravanti andata perduta e riprodotta su t-shirt da collezione) che, come Dado, ha accettato il dialogo con i curatori, ben felici di finire in museo. Sotto la scritta “Spaccare tutto” c’è il disegno di due bombolette incrociate. Spaccare tutto? Se la Street Art è morta, rimpaginata nel decoro e nell’arredo urbano promosso dai Comuni, minata dal virus dell’immortalità a tutti i costi, allora è giunta veramente l’ora di spaccare tutto, creare scenari alternativi a modelli ripetitivi e stanchi, riprendersi la strada.