Fa male lo sport
Sacchi, l’anacoreta
Piaceva poco a Berlusconi e ancora meno a Gianni Brera, ma ha rivoltato come un pedalino il calcio italiano, ha imposto un cambiamento culturale: imporre il proprio gioco invece di aspettare l'avversario. Arrigo Sacchi compie settant'anni
In panchina portava spesso un trench doppio petto, bianco, stretto dalla cintura, un cilicio che gli faceva un vitino di vespa, quasi a completare una figura da anacoreta, la faccia ancora giovane, gli occhi spiritati nascosti dai Ray-Ban, un cespuglio di capelli bianchi sulla nuca che lo invecchiava. Così si presentò Arrigo Sacchi alla Serie A 1987-88. Silvio Berlusconi gli aveva messo nelle mani il Milan qualche mese prima. Allora aveva 41 anni, il Profeta di Fusignano. Adesso di anni ne compie 70. Quella stagione Sacchi vinse l’unico scudetto della sua carriera; nel ’90 andò vicinissimo a rivincerlo ma fu di nuovo Napoli tra polemiche non ancora esaurite, a causa della monetina di Alemao a Bergamo e dell’arbitraggio di Rosario Lo Bello a Verona. Poca cosa – l’unico triangolino tricolore – rispetto ai 6 trofei internazionali che videro protagonista il suo Milan: 2 Coppe dei Campioni, 2 Coppe Intercontinentali, 2 Supercoppe europee. E tutto fu generato da quello scudetto del maggio ’88, al culmine della eccitante cavalcata in rimonta sul Napoli di Maradona.
Al calcio «ho dato tutto quello che potevo e per lui, purtroppo, a volte ho tolto alla mia famiglia. Ma per me il calcio era totalizzante, un’ossessione» ha confessato recentemente a Domenico Calcagno del Corriere della Sera. «Se pensavo ad altro, mi sembrava di rubare la fiducia e il denaro di chi credeva in me. Quando ho smesso ho detto: sono stato 27 anni in apnea, Maiorca, rispetto a me, era un dilettante».
Ha rivoltato come un pedalino il calcio italiano, ha imposto un cambiamento culturale, l’Arrigo. Quel Milan è stato etichettato come la migliore squadra del dopoguerra. La sua Italia, nel ’94, è arrivata ad un passo da un nuovo titolo mondiale. C’è stato un calcio ante e un calcio post Sacchi. Anche se non si possono buttare nel secchio le idee e le sperimentazioni di alcuni suoi predecessori, il calcio di Vinicio e di Radice, quello di Trapattoni e di Liedholm, di Bagnoli e dello stesso Bearzot. Non eravamo soltanto catenaccio e contropiede. Ma Sacchi ha cambiato completamente la capoccia, la mentalità; il suo calcio non è stato soltanto schemi, zona, pressing, ripartenze, allenamenti faticosi e 4-4-2. O puro spettacolo. Il suo calcio è stato una filosofia nuova: imporre sempre il proprio gioco, in casa, fuori casa, ovunque. Non fare le comparse aspettando l’avversario ma essere protagonisti assoluti con il bel gioco. In questo è stato un rivoluzionario, un personaggio difficile e maniacale, divorato dallo stress («L’ho governato per tanti anni, però alla fine sta vincendo lui» sottolineò due anni fa lasciando l’incarico di coordinatore delle nazionali giovanili). Un fanatico che continua a dividere. O si venera Sacchi oppure lo si detesta. Tertium non datur.
La sua ascesa è coincisa con quella di Silvio Berlusconi ma, dopo le vampate degli inizi, i due entrarono in conflitto e si sopportarono a vicenda. L’autopromozione berlusconiana è passata anche attraverso i trionfi del Milan di quel periodo – il Milan degli Immortali come venne definito retoricamente – oltre che sulle tette di Drive In.
Nell’agosto dell’86 il Parma di Sacchi andò a giocare a San Siro, Coppa Italia: il tecnico della provincia di Ravenna aveva portato gli emiliani dalla C alla B. Ma questo era l’ultimo capitolo di una storia cominciata anni prima. Lasciato l’ultimo anno di ragioneria, il giovane Sacchi si era messo a vendere scarpe, prodotte dall’azienda paterna, in giro per l’Europa. Però il pallone aveva sempre suscitato il suo interesse. Tanta gavetta, campi della provincia (come Sarri), Supercorso a Coverciano, le giovanili della Fiorentina e poi l’occasione con il Parma, prima dell’arrivo di Tanzi. Quella partita dell’86 a San Siro finì 1-0 per il Parma, gol di “Fontolino” Fontolan. Sei mesi dopo, stesso punteggio (gol di Bortolazzi, questa volta), stessa coppa, e, innanzitutto, stesso gioco spumeggiante degli emiliani guidati dallo stralunato mister romagnolo.
Fu lì che si presero, Berlusconi e Sacchi. Il Milan di Liedholm andava male, Berlusconi decise di mandare via il santone svedese e concluse il campionato con Capello che pure riuscì a conquistare la partecipazione alla Coppa Uefa. Il gioco del Parma aveva lasciato tracce nella mente del patron rossonero. Che aveva messo le mani sul Milan nel gennaio-febbraio del 1986, favorito dalla situazione quasi fallimentare della società e dal clima politico. Giussy Farina, l’imprenditore già presidente del Lanerossi Vicenza, aveva agguantato il Milan che stava andando in serie B e l’aveva riportato in A. Ma i conti non quadravano. Non era uno stinco di santo, Farina. Anni dopo si difese riferendo un’altra storia: «Io non vendetti il Milan: arrivò Berlusconi e me lo tolse…» rivelò a Gian Antonio Stella (intervista del 4 settembre 1995 sul Corriere della Sera). «Mentre ero via – in realtà era latitante in Sudafrica ndr – saltò fuori di tutto. Che non avevamo pagato l’Irpef, che pagavamo dei giocatori in nero… Tutto vero. Ma noi non pagavamo l’Irpef da tre mesi, e c’erano squadre che non la pagavano da anni… Erano tutti d’accordo: Berlusconi, Carraro, Craxi, una manica di socialisti… Venne ingigantita una situazione finanziaria difficile ma non drammatica. Mi sarebbe bastato vendere Mark Hateley alla Juve, per dire, e tutto sarebbe andato a posto. E invece mi cascarono addosso un sacco di grane. Denunce per falso in bilancio, ordini di cattura. E mi sfilarono la società sotto il naso senza pagare una lira».
Peppino Prisco, lo storico vicepresidente dell’Inter, raccontò nel 2000 alla Gazzetta dello Sport che Berlusconi aveva provato a prendere anche l’Inter: «Prima con Fraizzoli circa trent’anni fa. Poi con Pellegrini agli inizi degli anni Ottanta…». Per dire che il tycoon nostrano aveva fiutato che cosa sarebbe stato per lui il calcio come veicolo pubblicitario. Con il Milan o con altre società.
Comunque, Berlusconi si prese il Milan per diventare «il presidente che più ha vinto nella storia del calcio». Come in effetti è stato. Nonostante il suo vezzo di voler fare l’allenatore e il padrone. Non a caso Indro Montanelli, dopo l’acquisto della società rossonera, scrisse, sul Giornale questo Controcorrente sul suo editore: «I tifosi rossoneri sono in festa. Sono convinti che in un battibaleno Berlusconi farà del Milan una squadra scudetto, da Coppa dei Campioni, da tutto, e forse hanno ragione. C’è un solo pericolo: che il neo-presidente voglia fare anche il direttore tecnico, l’allenatore, il massaggiatore, il capitano e il centrattacco. Il che potrebbe anche andare bene. Ma ad una condizione: che possa fare anche l’arbitro».
Si misero attorno ad un tavolo una sera nella villa di Arcore. Tutti uomini e nessuna distrazione, diciamo così. Oltre ai due protagonisti, c’erano Adriano Galliani ed Ettore Rognoni, giornalista e dirigente Mediaset. Fu lui a mettere in contatto Sacchi e Berlusconi. Lo raccontò Giancarlo Dotto nel suo La squadra perfetta (Mondadori, 2008). «Parlarono solo di calcio dalle venti e trenta alle tre del mattino. Più che altro fu un monologo di Sua Emittenza. … Prima di cena, Berlusconi scortò il suo nuovo giocattolo a fare una visita guidata per la prestigiosa pinacoteca di casa. Sacchi si soffermò in particolare davanti ad una tela fiamminga. Restò a lungo assorto e quando già gli astanti erano lì a meravigliarsi di tanta sensibilità artistica, lui li freddò con una domanda a bruciapelo: “Di Costacurta che mi dite? Me ne parlano tutti un gran bene”. Quando, prima di mezzanotte, Sacchi chiede licenza di assentarsi per una rapida pipì, Berlusconi quasi salta in braccio a Rognoni: “Questo è il mio uomo. Mi piace…”».
Sacchi però aveva già un mezzo accordo con la Fiorentina e non voleva tradire la parola data a Ranieri Pontello. «Scusa Ettore, non me la sento… Ringrazia il dottore, ma la parola è parola» disse a Rognoni. Che però riuscì a convincerlo a rinviare l’appuntamento di Firenze. Sacchi ritornò ad Arcore e firmò per il Milan. Un solo anno. «Poi smetto con il calcio. L’aveva detto anche a Parma. Non era una cabala, ci credeva davvero. Ascolta il consiglio di Rognoni e firma in bianco. Un atto contro natura per uno come lui, molto consapevole del valore del denaro. Non fu piacevole scoprire che avrebbe guadagnato trecento milioni meno che al Parma». Nel corso degli anni si rifece ampiamente con i guadagni. In nazionale scucì ad un certo punto un contratto di 11 miliardi e 621 milioni lordi, più i premi doppi rispetto a quelli dei giocatori. Seguirono – puntuali e inutili – interrogazioni parlamentari.
Sacchi era imbevuto del gioco totale dell’Olanda di Rinus Michels e degli schemi dell’Ajax di Stefan Kovacs e le prime mosse di mercato lo portarono a chiedere un giovane attaccante olandese, poco più che ventenne: Marco Van Basten. Per quello che diventerà in seguito, nonostante i tanti infortuni e gli attriti con l’allenatore, il Milan spese una sciocchezza: 1 miliardo e 750 milioni di lire. Furono invece 13 i miliardi che Berlusconi pagò per Ruud Gullit.
La storia di Sacchi al Milan cominciò con i due “tulipani”, belli e forti ma diversi l’uno dall’altro. Marco timido e introverso, quasi noioso; Ruud era uno felice di vivere, molto amato dalle donne, impegnato contro il razzismo e contro l’apartheid:dedicherà il Pallone d’oro a Nelson Mandela. Gianni Mura annotò su Repubblica: «Sotto le treccine, una testa vera». Sarà lui l’artefice dello scudetto sacchiano. Carmelo Bene osservò entusiasta: «Non vedo un giocatore così dai tempi di Pelè. Gullit è l’avvenire…».
Ma Sacchi pretese un terzo giocatore in quel primo Milan, nonostante le perplessità dei dirigenti: Carlo Ancelotti. Che aveva due ginocchi conciati male. I medici dissero ok e Sacchi poté iniziare. La prima campagna acquisti sotto la sua direzione era costata 25 miliardi.
A Milanello cambiò tutto, comparvero figure nuove come gli psicologi, i dietologi, gli statistici. Ma furono gli allenamenti e i carichi di lavoro a trasformare la preparazione. Un incubo per i giocatori. Sacchi in calzoncini corti e berrettino, aiutato dal preparatore atletico Vincenzo Pincolini, era lì come un sergente dei marines a sorvegliare e dettare tempi. Ancelotti se lo ricorda ancora: «…la prima preparazione con Arrigo è stata terribile. I suoi metodi erano totalmente innovativi. Se prima potevo dire che nel lavoro c’era un’intensità pari a venti, a Milanello l’intensità era pari a cento. Una differenza abissale, una fatica tremenda… Il problema era che la giornata non finiva alle sette di sera, dopo il secondo allenamento. C’era la cena, poi fra il caffè e il letto Sacchi ci piazzava la riunione. Non la riunione tecnica, ma quella psicologica… A inizio preparazione pesavo 84 chili, alla fine 68… Quando sono tornato a casa, mia madre quasi non mi ha riconosciuto».
Non fu facile l’avvio di Sacchi in quel campionato, anche perché in Coppa Uefa il Milan fu buttato fuori dall’Espanyol. I tifosi erano inferociti e le critiche divennero pesanti. Gianni Brera nel settembre dell’87 chiosò con sarcasmo su Repubblica: «Arrigo Sacchi è di quelli che riassumono il calcio con questo orgoglioso semplicismo: essere più di ogni cosa importante segnare un gol più degli avversari… Seguo la patria pedata da oltre mezzo secolo e mi sono di anno in anno rafforzato nella convinzione che gli italiani si debbano imporre – sempre! – di prendere un gol meno degli avversari… Io non conosco Arrigo Sacchi: noto che ha la faccia simpatica e che ragiona con la logica avvincente per chiunque non lo sappia affetto dal peccato originale: quello di credere che tre titoli mondiali e uno olimpico siano stati regalati all’Italia dal buon Dio degli eserciti e non propiziati da un ferreo, convinto, indefettibile difensivismo…».
Dentro la squadra il clima non era dei migliori e Van Basten era quello più critico. Sacchi lo punì relegandolo in panchina a Cesena: «Ho preso atto che tu sai molto di calcio quindi verrai con me in panchina, così mi spiegherai dove sbaglio». Ma Van Basten dovette fare i conti anche con le sue caviglie fragili, si infortunò e restò fuori a lungo. Sembrò che l’avventura di Sacchi fosse già ai titoli di coda. La trama andò diversamente. Da Virdis a Gullit, da Donadoni a Baresi, la squadra ritrovò voglia di lottare e giocate, restò l’unica a inseguire il Napoli fino a sorpassarlo nella sfida del primo maggio al San Paolo. A due giornate dalla fine il Milan aveva 43 punti, il Napoli 42 punti. Era fatta.
Il crollo degli azzurri destò più di qualche sospetto alimentato da pentiti della camorra. Ma restarono chiacchiere. Il Napoli si sgretolò affogato nell’anarchia e boccheggiante per la mancanza di fiato. Il Milan di Sacchi conquistò il primo successo e incantò gli stadi di lì in avanti. Diede lezioni al Real Madrid, al Benfica, all’élite del calcio europeo e sudamericano. In qualche occasione fu fortunato (la nebbia salvifica con la Stella Rossa di Belgrado) alimentando nei maligni la convinzione che Sacchi avesse dalla sua un bel “fattore C”.
Presto si manifestarono punture di spillo e gelosie da parte di Berlusconi che aveva la pretesa – allora come oggi – di imporre qualche giocatore (il presidente voleva a tutti i costi l’argentino Claudio Daniel Borghi, modesto giocatore; Sacchi fu sul punto di dimettersi se non gli avessero preso invece Franklin Rijkaard, il terzo “tulipano”). Le scintille con Van Basten si ripeterono. Fino ad esplodere, anni dopo, nell’incendio dopo la notte di Marsiglia: la sceneggiata dell’abbandono del campo a pochi minuti dalla fine, Galliani che spinse la squadra verso gli spogliatoi dopo che un riflettore si era spento. Il Milan perdeva, sarebbe stato eliminato dall’Olympique. Era la sera del 20 marzo 1991. Mura scrisse di giorno della vergogna. Billy Costacurta ha detto qualche settimana fa la sua: «Fu Berlusconi a decidere». Di certo Berlusconi si raffreddò ancora di più con l’omino di Fusignano, incalzato anche da Van Basten che impose un diktat: o me o lui.
Un epilogo un po’ triste come tutti i the end di Sacchi.
———————————————–
Mi hanno aiutato a scrivere questo articolo: “Non solo Coppe. Berlusconi e il Milan” un libro scritto nel 2010 per Lìmina da Massimo Solani e Francesco Luti; “Le corna del Diavolo. Il Milan di Berlusconi” un libro di Carlo Petrini (Kaos Edizioni, 2006); il web magazine “Storie di Calcio. Il football come lo abbiamo sognato e amato”.