L’Europa vista da Gabriella Sica
Riconoscersi in Bach
Più che la moneta unica, secondo la poetessa e scrittrice romana, sarà il retroterra culturale a costituire il substrato di un ideale comune. E tra storia, autobiografia e letteratura disegna una mappa utile per opporsi al “ratto”, per arginare la crisi
È un libro anomalo, questo di Gabriella Sica, poetessa e saggista romana che annovera nel suo curriculum numerose e apprezzate pubblicazioni. Il titolo, Cara Europa che ci guardi (1915-2015) (Cooper, 368 pagine, 14,00 euro), si rifà a un celebre verso di Vittorio Sereni, tratto da una poesia del Diario d’Algeria. «Ho allestito una mappa mentale e sentimentale di un’Europa personale e insieme storica, guidata solo da qualcosa che potrei chiamare istinto, o da un pensiero non strutturato e fluttuante, da un ritmo spiazzante, sbandato. In questo spazio geografico e immaginario ho provato a scavare un breve percorso rabdomantico, più che altro per lampi o fosforescenze, usando bussole e seguendo frecce d’orientamento e cartelli topografici del tutto personali o scelti dalla memoria senza un centro» avverte l’autrice.
E, in effetti, la struttura del saggio si articola su diversi piani di lettura che passano da quello autobiografico a quello più espressamente politico, da quello storico a quello familiare, con un occhio di riguardo per la tradizione letteraria europea. Ne viene fuori una narrazione sui generis che alterna momenti più lineari e distesi a riflessioni di natura geopolitica, in cui il concetto stesso di Europa e di europeismo viene a più riprese proposto e messo in discussione, in virtù di quelle che si possono considerare le prerogative storiche dell’Ue. Per la Sica, più che la controversa moneta unica, sarà il comune retroterra culturale a costituire il substrato di un ideale che trova in un verso di Milosz o in un’aria di Bach la dimensione in cui tutti dovremmo cercare di riconoscerci.
A tal riguardo osserva la poetessa: «Siamo nelle mani del mercato finanziario, pari a un dio capriccioso e invisibile, di cui non possiamo accettare l’oscura sacralità di cui si riveste. Siamo sotto la spada di Damocle del denaro, non semplice strumento di scambio necessario, ma oggetto che travolge opere e imprese umane, come un folletto o uno “gnomo”, scriveva la Ortese, che interviene e spariglia i valori e il gratuito, compra e devasta, celebra e annienta». Non si può basare solo su fattori meramente economici la convivenza tra i popoli senza rischiare a più riprese il collasso (si veda la situazione della Grecia, analizzata dalla Sica in rapporto soprattutto al fecondissimo retroterra mitico e culturale) ma bisogna intervenire affinché si recuperi un modus vivendi radicato su valori più equi e solidali.
«Mai come nel nostro tempo avverso sono tanti gli inermi e i vinti, i senza potere e a mani nude e, dall’altra parte, gli aggressori, i dominanti che arraffano pezzi della nostra vita e li ingurgitano, come fa il lupo cattivo. Nel nostro tempo è scomparsa quella solidarietà, organica e biologica, che rendeva possibile la convivenza tra il piccolo e il grande, non c’è più lo stupore e il meraviglioso che tratteneva insieme la natura e i protagonisti nella loro metamorfosi e permetteva scambi e legami» aggiunge la Sica che, con estrema delicatezza, ripercorre il proprio apprendistato culturale, raccontando episodi della sua infanzia in una Tuscia favolosa, nonché la scoperta dell’indipendenza rispetto ai precetti paterni fino ad arrivare ai giorni nostri, dominati da una sorta di spaesamento che rende tutti «spettri di un tempo cupo e fluido». Si tratta di un viaggio a ritroso, alla ricerca non solo delle origini dell’Europa (il mito di Europa rapita dal toro Zeus) ma finanche delle proprie radici familiari, fino a conglobare un secolo, fatto emblematicamente iniziare con l’avvento della prima guerra mondiale.
Il cosiddetto «secolo breve» viene dunque ripercorso attraverso le vicende degli antenati dell’autrice e dei parenti più stretti che divengono, a loro modo, emblematiche, nella loro semplice essenzialità, di un’epoca. In questo senso le amare vicissitudini, durante la prima guerra mondiale, dei due fratelli soldati – di cui uno è il nonno dell’autrice – acquistano valore paradigmatico rispetto alla vita vissuta «al tempo della globalizzazione, in cui ogni evento è collegato a un altro, dove tutto è frantumato ma stretto in una connessione interdipendente. Dove quel che succede altrove si ritorce subito qui». La narrazione procede a strappi, con il frequente ricorso a citazioni di autori amati che sembra cadenzare anche lo svolgimento ondivago della stessa. Si tratta non di rado di riflessioni sul tema dell’Europa e della pacifica convivenza fra i popoli, scaturite dalla penna di Hanna Arendt o di Simone Weil, paragonate dalla Sica alle problematiche contingenti dell’attuale situazione sociopolitica: dall’emigrazione alla crisi economica, dall’inquinamento alla disoccupazione per arrivare al pressapochismo delle classi politiche (si pensi al manifesto della Weil scritto per sopprimere i partiti).
Ma questo libro è soprattutto una critica, intesa in una prospettiva rigorosamente laica, alla nostra maniera di vivere, ai ritmi quotidiani diventati impossibili, alla mancanza di rispetto e di pietà verso il prossimo e, in particolare, verso gli ultimi, al contrasto sempre più evidente tra consumismo e miseria dilagante, all’inautenticità che domina i rapporti umani, irretiti nelle dinamiche prefigurate a suo tempo da Guy Debord nella sua Società dello spettacolo. «La Grande crisi sta cominciando a dare segni del suo passaggio anche nei volti infelici di chi incontriamo, nella disperazione intima che non si dice ma che c’è» annota l’autrice. Tale depauperamento, tale precarietà non possono rappresentare uno status degno di un’Europa che sia all’altezza delle aspettative riposte in un passato non troppo lontano da pensatori e teorici d’eccezione (si pensi al Manifesto di Ventotene), dando adito a tendenze che non possono che essere deleterie come la ricerca di un male ottuso, banale, spesso gratuito, «sciorinato in tutte le salse, dalla televisione inguardabile agli innumerevoli libri sui killer, nuovi protagonisti di un ben triste e povero orizzonte». Il bene «non si sa più quale sia e non fa mai notizia, sembra che sia scontato, melenso».