Periscopio (globale)
L’invettiva perduta
Coniugare sentimenti e passioni, società e intimità: è (o, meglio, dovrebbe essere) la funzione della poesia. Riparatrice, come diceva Seamus Heaney. O difficile, come la voleva Jean Cocteau
Perché al giorno d’oggi non si scrivono quasi più invettive? Nel mio piccolo, e lo dico non per farmi pubblicità, ma semmai per affrontare il pubblico ludibrio quale esempio da non seguire, ho incentrato su un’invettiva contro il tempo la mia ultima plaquette di poesie, uscita qualche mese fa per i tipi della Camera Verde, che ho intitolato non a caso A capo della congiura, il tempo. Mi è sembrata, l’invettiva, l’unico modo possibile per rapportarmi al tempo che mi sfugge e m’inganna, ma non escludo affatto che possa applicarsi anche ad altri soggetti, nell’incomprensibile marasma che ci circonda. Anzi, mi stupisce non leggerne di più, d’invettive poetiche, in un mondo che dell’offesa e dell’aggressione verbale indifferenziata sta facendo sempre più la propria cifra.
Cerchiamo di chiarire anzitutto cosa sia esattamente un’invettiva. Consideriamola pure, sulla scorta dei migliori dizionari, come un discorso polemico, spesso concitato e violento, di accusa e oltraggio, o almeno di rimprovero, nei confronti di determinate persone o cose. Ma in passato, e penso soprattutto al Tre e Quattrocento, l’invettiva era anche la forma di un componimento letterario, sempre a carattere fortemente polemico: si pensi alle invettive di Dante nei confronti della curia romana o della città di Pisa o a quelle di Poggio Bracciolini contro Francesco Filelfo e Lorenzo Valla, o ancora contro Cesare (ma anche Petrarca non scherzava quando si rivolgeva ai medici del suo tempo). Naturalmente tutto ciò discende dal vituperium o improperium, una delle forme comiche e spesso caricaturali della letteratura latina, e quindi non abbiamo inventato (e del resto non inventiamo quasi mai) niente. Ma se di solito l’invettiva riguarda un popolo e i suoi usi e costumi, o un dato individuo di cui non si apprezzano i gusti o il comportamento, o una categoria precisa come quella delle vecchie (vituperium in vetulam), nulla esclude che ce la si possa prendere con un’entità astratta come il tempo, forse oggettivabile e perfino misurabile, ma non per questo più facile da attaccare. In questo non rivendico nemmeno una particolare originalità: si pensi solo (un esempio fra mille) ai sonetti shakespeariani e alla loro civile polemica contro le devastazioni operate dal tempo. Vedi per un solo esempio, il sonetto 19: “Yet do thy worst, old Time; despite thy wrong, / My love shall in my verse ever live young.” (Nella trad. di Elio Chinol: “Ma infuria pure, vecchio Tempo: a tuo scherno, / il mio amore nei miei versi vivrà giovane in eterno.”)
Prendere di petto il tempo, affrontarlo, misurarsi in un certo senso con quest’entità, sia pur solo poeticamente, a cosa può portare? O meglio, e in generale, può portare a qualcosa? Non che la poesia debba servire necessariamente a qualcosa, ma se si decide di comporre dei versi – cosa da cui ci si potrebbe benissimo esimere senza gravi danni per l’umanità – si deve pur avere una motivazione, un intento. Ma siamo poi così sicuri che la poesia non serva proprio a niente, o che non possa svolgere una funzione almeno per colui che scrive? Diceva Seamus Heaney in una delle sue Oxford Lectures, coniando il concetto secondo me suggestivo della poesia come riparazione, che è opportuno che “la visione della realtà offerta dalla poesia sia trasformativa, più che una semplice raffigurazione delle circostanze predeterminate del suo tempo e luogo. Il poeta (…) deve tentare un atto di scrittura che prevale sulle circostanze nel momento stesso in cui le osserva. Lo scrittore davvero creativo, interponendo la sua percezione ed espressione, trasfigura le condizioni e così produce ciò che chiamo la ‘riparazione della poesia’.”
Poesia come trasformazione; trasformazione, aggiungo, che spesso passa attraverso un’epifania. I momenti della poesia, diceva Yves Bonnefoy in un lungo intervento apparso qualche anno fa sulla rivista “Semicerchio”, sono quelli in cui una cosa o una persona sono davanti a noi, e noi cogliamo la densità di questa presenza, l’intensità della manifestazione, che trascende il nostro desiderio di ridurre tale persona o cosa a un pensiero su di essa. Appunto per questo la poesia ci sembra così trascendente e sofisticata, delicata ed elusiva, in ogni caso contrapposta alla prosa, di cui pure può nutrirsi, ma da cui non deve mai lasciarsi sopraffare.
La sfiducia nei confronti della poesia, che capita di provare, è allora anzitutto sfiducia nei propri mezzi stilistici ed espressivi, che un poeta (se onesto) considera sempre poveri e inadeguati. A questa sfiducia si può reagire in molti modi: con l’intimismo, che di solito è un pessimo compagno di strada, con l’oscurità, con l’abbassamento del dettato poetico verso la prosa, con la banalizzazione canzonettistica. Tutte strade sbagliate, secondo me.
Nel modulare la nostra reazione – e ritorniamo all’esempio dell’invettiva – le forme del passato possono essere d’aiuto, tanto che molti ricorrono al sonetto, o alla terzina dantesca o ad altre modalità espressive che a priori dovrebbero sembrarci obsolete e che invece si caricano come per incanto di nuovi furori e di una plastica attualità.
Chiudo con un’ultima citazione, stavolta da Jean Cocteau, il quale soleva dire che per un poeta parlare di poesia è difficile quanto per una pianta ragionare d’orticultura. Forse è proprio la poesia, nella sua infinita saggezza, a non apprezzare che se ne ragioni troppo. Riprendiamo magari a leggerla, piuttosto.