Un libro curato da Andrea Viliani
Le inquietudini di Amelio
Una grande monografia mette ordine nella memoria di Lucio Amelio e fornisce l'occasione per riflettere su quella stagione nella quale Napoli scelse di accettare le proprie contraddizioni, invece di fuggirle
«Caro Lucio, ti scrivo questa lettera dal futuro…». È l’incipit del testo di Andrea Viliani, direttore del Madre, per introdurre il lettore nel complesso universo Amelio, racchiuso oggi in un libro raffinatissimo, ricchissimo di dettagli, aneddoti, documenti, foto e analisi critiche. Pubblicato a un anno dalla mostra – Lucio Amelio. Dalla Modern Art Agency alla genesi di Terrae Motus (1965-1982) – che la Fondazione Donnaregina ha dedicato all’intellettuale partenopeo, mette finalmente ordine nella caotica mitologia di uno degli indiscutibili protagonisti dell’arte contemporanea. La monografia, targata Electa, è un viaggio nel tempo tra ieri, oggi e domani: un’acuta indagine su un passato che «ci conduce oggi – riflette Viliani – all’esistenza di un museo come il Madre. Avevi ben compreso che l’arte, se intesa come necessità civile e non solo come pratica estetica, doveva farsi discorso pubblico». Il volume (240 pagine, autenticate dal timbro del gallerista) titola semplicemente Lucio Amelio: una dichiarazione di intenti nel segno della “nostalgia del futuro”, di una memoria che genera progettazione e azione, e su cui insiste Pierpaolo Forte, presidente della fondazione. Di una storia che ha disseminato energia e che, nonostante tutto, non si è consumata come avvertono Achille Bonito Oliva e Michele Bonuomo nel dialogo amarcord che ci restituisce il valore dell’avventura di Amelio.
Il messaggio è nella fotografia in bianco e nero firmata Mimmo Jodice, che campeggia in primo piano sulla copertina. Dicembre 1970, Lucio posa davanti alle “Armi” di Pino Pascali nella sala espositiva della Modern Art Agency. Finzione, gioco, ironia. L’arte è questo, la leggerezza che si fa pensiero forte, che provoca e scuote le coscienze, l’arte che, nel monito di Amelio, serve a liberare l’uomo, non a decorare gli ambienti à la mode disegnati dagli architetti”.
Addio alle acque rassicuranti degli Arganauti – così Abo battezza i discepoli di Carlo Giulio Argan – si naviga nel mare agitato dal vento del nuovo. Issando come bandiera quel “La Rivoluzione siamo Noi”, coniata da Joseph Beuys per la sua prima personale in Italia. L’immagine del manifesto della mostra riprende l’artista nel viale di Casa Orlandi ad Anacapri, ospite di Pasquale e Lucia Trisorio. “Lucio – ricorda il regista Mario Franco – lo fece fotografare da Gianni Pancaldi come un personaggio di Pellizza da Volpedo, con quello slogan che annunciava la performance alla Modern Art Agency. “Magro, allampanato, occhi spiritati e febbrili, un cappello di feltro in testa, camicia aperta e giubbotto verde mela su cui fa spicco il distintivo-emblema di Angela Davis, Joseph Beuys espone le sue idee politiche per la trasformazione della società moderna”, leggiamo nella recensione di Filiberto Menna per Il Mattino a quell’evento del 13 novembre 1971 che richiamò una “folla eterogenea e numerosissima – conferma Franco che filmò lo straordinario happening – che comprendeva artisti come Gino De Dominicis, Pierpaolo Calzolari, Kounellis, Emilio Prini e critici come Germano Celant, Menna e Bonito Oliva”.
Scaviamo nelle testimonianze che si rincorrono nel libro con andamento circolare. La quinta è una Napoli in transizione che si modella – avverte Angelo Trimarco – sullo “sguardo lungo di Amelio”, la sua capacità di anticipare i tempi, e i semi che pianta con la sua galleria avanguardistica e, in particolare, con il bollettino-periodico che dirige, “Made In” (1968-69), che mette sullo stesso piano arte, teatro, danza, architettura e l’abitare. L’origine dei sogni, la genesi della realtà. “Rigido, dolce, giusto, intelligente, arrabbiato, finanche severo, ma comunque fratello geniale”, è il ritratto che fanno le sorelle Anna e Giuliana Amelio. “Mio padre mi voleva ingegnere – Amelio racconta Amelio ne “Il fotogiornale dell’arte del ’94 – io scappo prima a Parigi, poi Berlino, Torino. Mi iscrivo ad architettura. La lascio. Mi iscrivo al Partito comunista. Le divergenze diventano inquietudini profonde e nel ’56 vado a Berlino, da un amico, un pittore astratto. Fu il mio primo punto di riferimento…”. Bisogna sopravvivere, forte della conoscenza di ben sei lingue parlate alla perfezione diventerà direttore d’esportazione per una ditta tedesca. “Poi è successo che sono morto e risuscitato”. 1963. La nipote Paola Santamaria fa la cronaca della svolta, il gravissimo incidente a Barcellona, il baratro fisico e mentale, la lunghissima convalescenza a Napoli, immobilizzato in un letto, la ripresa grazie ai libri e alla rinnovata passione per l’arte e per tutto quello che è creatività. “Nel 1964, solo ed esclusivamente per avere un’entrata, inizia a lavorare come interprete all’Italsider, mentre la strada dell’arte si fa spazio a grandi passi: continua a coltivare i rapporti con Gunther Wirth che ha aperto una Zimmer Galerie a Berlino. Ed è proprio qui che organizza la sua prima mostra di pittori napoletani: Renato Barisani, Guido Biasi, Gianni Pisani”.
Lucio Amelio accoglie il suggerimento dell’amico: apri uno spazio simile a Napoli, io ti procuro gli artisti e pago le spese. Nasce la Modern Art Agency, la galleria-appartamento al civico 85 di Parco Margherita, “in cucina mangio, vivo e dormo, le altre due stanze le dedico all’arte”. Il vernissage, 18 ottobre 1965, con “I racconti di viaggio” di Heiner Dilly, la sua labirintica Reisegeshicten che “fonde e confonde tutte le città in un unico, felice paese originario”, commenterà Filiberto Menna che acquisterà un quadro. Un secondo lo comprerà l’editore e promotore di eventi Marcello Rumma, due salernitani a battezzare quello strano giovanotto che sembra avere le chiavi per aprire le porte e sconfinare nello sconosciuto mondo della contemporaneità. “Poi Napoli mi scoprì”, confida Lucio. Lui, l’uomo giusto al momento giusto, il traghettatore di energie disseminate tra le isole felici della Libreria Guida e del Centro di Dina Caròla e Renato Bacarelli, prima galleria ad esporre gli artisti Pop americani subito dopo la Biennale del 1964. “Lucio – scrive Bonuomo – fuori completamente dalle logiche e dalle strategie culturali dominanti, intuisce che bisognava cominciare a intrecciare un dialogo. Si rende conto, anche per il suo vivere cosmopolita, che bisognava parlare con il mondo, che gli artisti entrassero negli umori della città e ne venissero contaminati”.
Non fuggire da Napoli, ma portare il mondo a Napoli, essere “la carta moschicida delle inquietudini”. Il ’68 è nell’aria, i mercanti sono al bando. Non lui che è più artista che mercante, capace perfino di fare sue le provocazioni del radicale Vincent D’Arista con la sua “incendiaria” Galleria Inesistente. Intanto Marcello Rumma promuove la Rassegna ad Amalfi, a cura di Celant, con Richard Long, Jan Dibbets, Van Elk, Emilio Prini, Michelangelo Pistoletto, Lucio Fabro e tutti gli altri dell’Arte Povera. Amelio capisce che deve fare il salto, nel ’69 si trasferisce a piazza dei Martiri – gli ambienti li rimoderna Nino Longobardi – “senza pagare la luce, abitando dentro una specie di armadio, lavorando a lume di candela”. “Accettai il mio destino: una galleria concepita non per fare soldi ma come espressione ideale assumeva un ruolo politico anche per me”. A segnare il corso dell’atelier di palazzo Partanna sarà “Il Viaggio” di Kounellis, l”anima dell’Europa”, novello Ulisse che intraprende una traversata nel golfo di Napoli su un peschereccio. L’artista greco scruta l’orizzonte, lo sguardo oltre il visibile fermato dall’obiettivo di Jodice quale metafora dell’arte. “In galleria – rievoca Amelio – erano esposti degli oggetti: pietre metà nere, metà naturali, l’uovo, il fuoco, il carbone… Era la prima volta che tirava fuori questi materiali”. E’ un’ondata inarrestabile, l’anno dopo si susseguono ben dodici mostre, tra cui l’operazione Stanley Brouwn, il suo lavorare su Spaccanapoli, le scarpe consumate messe in un quadro. Arriva Twombly, “l’americano che aveva rifiutato la concezione americana del business”; c’è la retrospettiva di Manzoni dove niente è in vendita; l’incontro con Beuys e un sodalizio che durerà quindici anni; l’ingresso nel comitato dell’Ente Fiera di Basilea e la battaglia contro l’invasione del mercato americano; passano Vettor Pisani, Giulio Paolini, Giuseppe Chiari; Vito Acconci, nudo, avvolto in un lenzuolo, declama “Vi mostrerò i foruncoli del mio culo”, alludendo ai mali dell’anima; Rauschenberg che attacca personalmente i quadri al muro; le statue viventi Gilbert & George; Christian Boltanski, Daniel Buren, Sol Lewitt, fino agli emergenti De Maria, Clemente, Cucchi e Paladino che già annunciano un cambio di scena. 1975, altra data simbolica: la galleria compie dieci anni e cambia il nome in “Lucio Amelio”, identificandosi sempre di più con quel vampiro di personaggi stimolanti che trascinava nel suo teatro “scintillante di idee, di passioni, di cazzeggio sublime e di fortissima amicizia”. Perché, in fondo, Lucio era un teatrante, come tutti i napoletani, amava la musica, cantava – resta il dolente disco “Ma l’amore no” del 1990, dedicato a Beuys morto quattro anni prima – recitava – lo vediamo apparire in ben quattro film dell’amica Lina Wertmuller – ed era maestro di scena di apparati barocchi come la festa a villa Volpicelli in onore di Robert Rauschenberg, l’americano che attraversa le grotte di Posillipo illuminate da ragazzi vestiti da Bacco. 1975, data simbolica anche perché Amelio acciuffa il mito Warhol, che fa il ritratto a lui e ad alcuni collezionisti napoletani. Di mostre non se ne parla, ma nasce quel feeling che condurrà alla storica pacificazione Europa-States nel 1980, Andy che espone da Lucio il ritratto di Beuys, e Napoli che, tra “tè e coca cola, rose e limoni” si fa ponte tra la cultura europea e quella americana.
Prende vita la leggenda del gran seduttore che riesce perfino a conquistare l’ultimo Vicerè di Napoli Raffaello Causa. Con Lucio l’arte contemporanea entra nei musei. Imprevedibilmente. Complice è Angela Tecce, a cui, come annota nel libro, il soprintendente, nel 1976, affida il compito di organizzare mostre di grande respiro a villa Pignatelli. “Cominciai con Mario Merz, fu uno shock enorme e ci furono polemiche furiose, ma Causa decise di prolungare l’esperimento”. Si continua, grazie all’alleanza con Amelio e Nicola Spinosa, con Pistoletto, Kounellis, Calzolari, Paolini, Alfano, “finché non esplode la bomba Burri”: è il ’79, museo di Capodimonte, il Grande Gretto Nero si inserisce tra Caravaggio e Claudio di Lorena. D’improvviso la tragedia immane del terremoto, “l’euforia è spazzata via così come la vita di quasi 3000 persone”. Amelio la stessa sera di quel 23 novembre del 1980 si reca sui luoghi dell’orrore, “si fa nuovamente catalizzatore per gli artisti – rammenta la Santamaria – annichiliti da quanto era successo”. Non si può rimanere indifferenti di fronte alla catastrofe, ma dalla catastrofe si può generare vita. La risposta al terremoto è “Terrae Motus”, l’arte segno di una ferita, un atto di dolore, un atto di accusa ma anche di speranza. Aderiscono 65 artisti di tutto il mondo, la collezione viene esposta a Villa Campolieto e al Grand Palais di Parigi, Mario Martone girerà un film per la Rai, una lunga chiacchierata con Lucio Amelio tra commozione e tante verità amare. La sede stabile dovrebbe essere (non lo sarà) il terzo piano di Capodimonte, quello che ospiterà l’ultima grande mostra di Beuys, “Palazzo Regale, pensata proprio per la reggia-museo. Così come la creazione della Fondazione Amelio dovrebbe essere la scintilla “per continuare su un concetto di arte non borghese che riscopra l’essenza dell’uomo, che cerchi di restituire dignità all’uomo”. Parola di Amelio, il suo testamento. Morirà il 2 luglio del ’94. Un’assenza che è pesata e che pesa. Una presenza che incita ad andare avanti. “Perché – conclude Viliani – se il museo che avevi immaginato a e per Napoli non ha mai inaugurato, nel 2005, sotto la direzione di Eduardo Cicelyn, ha inaugurato invece il Madre. Ti sono grato per la storia che ci hai affidato e sono certo che questa storia non è (e non potrà mai esserlo finché ci saranno l’arte e i musei) finita”.