Al Museo Bilotti di Roma
Eroi da collezione
L'arte secondo un collezionista "consapevole": ottanta opere, da Mafai a Pizzi Cannella passando per Schifano, Angeli e Festa, descrivono la parabola estetica di Roberto Gramiccia. Un Don Chisciotte della passione artistica
Lasciamoci guidare dal titolo. Quello di «Fragili eroi» battezzava un saggio, un’antologia di una novantina di biografie, che Roberto Gramiccia, 62 anni, medico, scrittore, storico d’arte autodidatta e critico, aveva dedicato ad analizzare storia per storia la scintilla di sofferenza, autodistruzione e follia che accende la creatività di molti artisti, li guida alla ricerca di senso. Lo stesso che ora torna a segnare la mostra che il museo Bilotti di villa Borghese (a cura di Alberto Dambuoso) porta in scena fino al 10 aprile, raccogliendo nelle proprie sale le ottanta opere della collezione che Gramiccia ha costruito in altre trent’anni di attività militante sul campo.
Quel titolo è come una patente che arruola lui stesso nella pattuglia dei fragili eroi e ci spiega da dove nasce e che cosa alimenta la sua vocazione al collezionismo, che trova qui, in questo museo, creato dal lascito di un industriale mecenate, la sua prima consacrazione pubblica. Per la maggioranza dei collezionisti la molla è il desiderio di possesso che può trasformarsi in mania. Probabilmente all’inizio anche Gramiccia ne è stato contagiato, quando mise fondo ai suoi risparmi per aggiudicarsi quel bellissimo e dolente piccolo nudo anni ’50 di Mario Mafai, che considera tra i pezzi di maggior pregio della raccolta ed ha esposto nella seconda sala, accanto ad altre tele e incisioni di autori della stessa scuola.
Poi però il suo rapporto con l’arte è cambiato, maturato sui libri di studio si è trasformato in conoscenza diretta, quando ha cominciato a scendere in campo come curatore, a stringere amicizie , intavolare progetti con gli artisti, come gli è successo con quel manipolo di autori che dividevano lo studio a San Lorenzo nell’ex pastificio Cerere in via degli Ausoni. Quando insomma ha scoperto che con le loro fantasie creative condivideva molto di più di una passione per la bellezza e per l’intensità delle emozioni, ma che nella loro ricerca di verità poteva riconoscere sotto altre forme il fuoco del suo impegno politico, del suo desiderio di cambiare il mondo. Gli artisti come preziosi compagni di strada e le loro opere come profezie di futuri possibili, testimonianze e bussole cui chiedere conferma di muoversi sulla strada giusta.
È questo ruolo di oracoli, misteri e parole d’ordine da decifrare, assegnato ai quadri, alle sculture che col tempo sono entrate in suo possesso a rendere davvero speciale, a suo modo unica, la collezione di Roberto Gramiccia. Coerente nonostante la diversità di tendenze, linguaggi, materiali che coprono gran parte dell’arco creativo fra figura e astrazione, perché in tutti o quasi gli autori che ha accolto nella sua casa balza agli occhi il doppio sigillo dell’eroismo e della fragilità, l’eco tangibile di una forza espressiva che in vario modo hanno ricavato dal mettersi in gioco, mettendo a nudo le proprie debolezze.
Non a caso, la mostra si apre con uno splendido ritratto di Don Chisciotte firmato da Tano Festa (nell’immagine accanto al titolo. Le altre due foto sono di opere di Renato Mambor, qui accanto, e di Giulio Turcato, sotto) che si affianca ad altri lavori di Schifano e Franco Angeli, protagonisti di una stagione di splendore e dissipazione, quella della scuola di piazza del Popolo, che i tre hanno pagato con la propria prematura fine.
Nella placida furia che muove Don Chisciotte, Roberto Gramiccia identifica – è lui stesso a spiegarlo nel testo in catalogo d’imminente pubblicazione – la tensione che da sempre guida l’arte – o dovrebbe farlo – a battersi per inseguire una propria irraggiungibile verità senza isolarsi dal mondo, contribuire a cambiarlo. Contro la logica del mercato e del potere , che oggi più che mai l’ha trasformata in merce. E contro la tentazione, sempre in agguato, di accodarsi al carro dei vincitori, scavarcisi una propria nicchia. Accettando la sconfitta, le infinite sconfitte che sconta chi deve indossare la corazza della propria inquietudine, un’armatura da capro espiatorio. Ma mai la resa.
Un abito scomodo quello del fragile eroe in lotta contro i fantasmi del potere, che anche Roberto Gramiccia, ha sempre indossato. In ognuna delle tante parti con cui si è presentato alla ribalta: scomodo e pronto a sfidare il sistema come medico, come critico d’arte e come scrittore. E ora come collezionista. Perché ci vuole coraggio nel confessarsi tale: raccogliere opere d’arte o qualunque altro cimelio è una passione che spesso assomiglia a una malattia. O può diventarlo. «Un rischio, quell’ansia febbrile di possedere, di far tuo un quadro che ti ha colpito, che ho corso anche io quando ho cominciato», confessa Roberto Gramiccia. Ci vuole coraggio ad accettare il confronto con altri collezionisti di rango più determinati e dotati di mezzi economici che si sono lanciati nell’impresa come se dovessero costruire un museo. «A restituirmi il senso delle proporzioni – spiega Gramiccia – è stata la mia casa. Non possiedo magazzini o depositi di sicurezza in qualche banca. Le opere che possiedo sono tutte in vista, nel mio appartamento che è grande, ma non grandissimo. Mi piace essere circondato di quadri, sculture che amo, e che continuano a parlarmi. A invitarmi a guardarle. E se non lo fanno più, non esito a scambiarle per procurarmene altre con cui continuare quel prezioso dialogo».
Già, il piacere di vedere e sentirsi in sintonia. È questo che ci restituiscono gli ottanta pezzi della collezione Gramiccia, messi insieme senza alcun calcolo di convenienza, e senza gerarchie di quotazioni, maestri consacrati accanto a talenti che ancora non fanno cassetta o sono stati relegati ai margini. Schegge di un immaginario collettivo in cui ogni visitatore è libero di scegliere la casa da abitare. Il filo d’Arianna con cui addentrarsi nel labirinto di intenzioni e di debolezze da cui ognuna di quelle icone à emersa. Quello che Gramiccia ci srotola davanti è un gomitolo che tiene insieme le esperienze artistiche di gruppo e personali maturate nel fertile terreno di Roma. Dagli anni Trenta a oggi. Un mosaico inevitabilmente incompleto, ma vivacissimo. Il capitolo più ricco è quello riservato alla cosiddetta scuola di San Lorenzo e al sodalizio cinque artisti che Gramiccia ha visto nascere negli studi del pastificio Cerere e accompagnato per lunghi tratti di strada. Tra tutti si imprimono nella memoria due lavori di Piero Pizzi Cannella. Il primo è un quadro di medie dimensioni, ricordo di un soggiorno immaginario in Tunisia. Riporta in mente, per contrasto, una celebre serie di acquarelli che segnarono una svolta nell’immaginario di Paul Klee. Per il pittore svizzero la Tunisia fu la scoperta della luce e del suo magico incanto, per Pizzi Cannella è invece l’angoscia sospesa in una camera in penombra. Il secondo è un’enorme tela illuminata da una bianca foschia: in primo piano il ricamo di ferro di una ringhiera sullo sfondo un miraggio di cupole e di campanili sfarinati nella nebbia. La Roma della memoria che ci annega davanti, pigra, fascinosa e maliarda, un trabocchetto della mente come quello che anni dopo Sorrentino racconterà nella sua «Grande bellezza». Questo costringerci a cambiar sguardo, trascinarci fuori e oltre il luogo comune è il dono più importante che l’arte può regalarci. La rivoluzione per cui vale la pena combattere.