Periscopio (globale)
Diplomazia & librerie
Londra, Lussemburgo, Bruxelles: le librerie italiane all'estero rappresentano l'ultimo bastione del nostro Paese in un universo che ha bandito la cultura come fosse una malattia
Stavolta non parlerò di libri, ma di quel che dovrebbe esserne il porto sicuro, anche se a volte attraversato anch’esso, e sconvolto, dai marosi della vita, ovvero le librerie. E parlerò di librerie del tutto particolari, che rischiano la sopravvivenza non a causa della concorrenza degli ipermercati o delle edicole a pochi metri di distanza – per non parlare dei vari Amazon o Internet Bookshop –, ma perché per loro natura devono fare affidamento su un pubblico di potenziali acquirenti estremamente limitato. In altre parole, cercherò di accennare alla difficile, quasi eroica esistenza, o meglio sopravvivenza, o ancora meglio strenua resistenza, delle librerie italiane all’estero.
È di fine gennaio la notizia, rimbalzata su vari giornali, del salvataggio in extremis dell’Italian Bookshop di Londra, che già aveva dovuto trasferirsi a causa dei prezzi impossibili degli affitti nella capitale britannica, creando una specie di joint venture con la European Bookshop, una realtà che vende libri in altre lingue (francese, spagnolo, tedesco ecc.). In seguito, dopo che la libreria aveva rischiato di chiudere per sempre, un ulteriore trasferimento a South Kensington ne permetterà la riapertura il 19 marzo e – pare – la sopravvivenza. Buone notizie, dunque, per i connazionali di stanza a Londra e per la libraia, Ornella Tarantola, che di questo esercizio commerciale è l’anima.
Un’altra donna, e un’altra anima dotata d’inesauribile energia, Luisa Spagnolli, segue fin dalla sua costituzione, nel 2000, i destini di una libreria non meno radicata di quella londinese sul territorio di riferimento: la Libreria italiana di Lussemburgo. Scarsamente sostenuta dalle nostre autorità diplomatiche, in altre faccende affaccendate, per le quali la cultura resta una cenerentola, la Libreria italiana è dal 2002 ospite di una stanzetta lunga e stretta nello storico quartiere del Grund, unico luogo nel centro della città dove gli affitti siano calmierati e ancora accessibili (il problema di fondo è quindi analogo a quello londinese). Ma per rilanciarne l’attività ci vorrebbe anzitutto una sistemazione ben diversa: visibilità, spazi ampi, magari una sala per le numerose presentazioni che la libreria stessa organizza. Perché se si vuole sopravvivere, oggi, non ci si può limitare alla vendita di libri, ma occorre promuoverli in tutti i modi, con incontri, proiezioni di film, collegamenti via Skype, attività per bambini e così via. Da anni, infatti, la Libreria collabora con le iniziative dell’Università del Lussemburgo e di altre istituzioni e soprattutto partecipa a numerose manifestazioni esterne, come il Festival del cinema italiano di Villerupt, in Francia (fra l’altro il più importante festival di cinema italiano all’estero), o il Salon du livre, tenutosi quest’anno dall’11 al 13 marzo e dunque appena concluso. In questi casi la Libreria occupa uno spazio fisso per la vendita, trasferendo parte degli ottomila libri disponibili nel luogo della manifestazione, e in più partecipa attivamente alla stessa organizzando presentazioni e incontri. Fra gli autori invitati negli ultimi anni, mi limito a ricordare fra gli altri, in ordine sparso, Carofiglio, Agnello Hornby, Tuena, Geda, Culicchia, Malvaldi, Crovi, Latronico, Iannaccone, Machiavelli, Altan, Severgnini, Caprarica e Catozzella. E perfino qualche poeta come Anedda e Falconi, a testimonianza del fatto che, se le cose si sanno far bene, anche la poesia diventa potabile e perfino appetibile. Un capitolo a parte meriterebbe l’attiva partecipazione all’allestimento dello spettacolo di Serena Dandini, Ferite a morte, andato in scena al Conservatorio di Lussemburgo, che nel 2014 ha visto la Libreria e in particolare la sua anima in primissima fila.
Di là dalle strategie di sopravvivenza che ciascuna di queste librerie mette in atto – alle due già citate va aggiunta almeno la Piolalibri di Bruxelles che, alla vendita di libri, ha affiancato con successo l’organizzazione di concerti e soprattutto la ristorazione, diventando, all’ora di pranzo, uno dei punti di riferimento nel quartiere europeo –, quel che bisogna chiedersi è se l’Italia ha ancora interesse a diffondere nel resto d’Europa la propria cultura, e se per farlo individua nelle librerie italiane all’estero un possibile veicolo privilegiato. L’impressione, in questo momento più che mai, è che della propria cultura il nostro paese non sappia che farsene, salvo usarla come ornamento e come occasione per le comparsate retoriche del politico di turno, e che meno ancora sia incline a interessarsi alle difficoltà incontrate da chi, malgrado tutto, all’esilio mentale e culturale non si rassegna del tutto e pretende di ricreare nel paese d’accoglienza strutture analoghe a quelle che troverebbe nel suo quartiere. Problemi di questi quattro visionari, si dirà, non certo pane e companatico di un ministro o di un ambasciatore.
E sia. Fatto sta che, con l’attività degli istituti di cultura ridotta ormai ai minimi termini, queste librerie spesso e volentieri rappresentano l’unica voce italiana nella città o nel paese straniero, e le loro attività, soprattutto quelle che si aggiungono alla mera vendita, l’unica immagine che il nostro paese proietti all’estero, oltre a quella, non sempre edificante, presentata dai giornali. Quando una libreria di questo genere chiude, non chiude un semplice esercizio commerciale il cui profitto, quando c’è, è per inciso comunque scarso; no, in questo caso è l’identità di un paese, che scompare. E anche quando si tratti, come nel nostro caso, di un paese suicida, che per vanificare i propri tesori e scomparire dalla scena culturale fa di tutto, questa non è mai una bella notizia.