Periscopio (globale)
Cronaca del distacco
Arriva in libreria “Le figlie degli altri" di Richard Stern, amico e sodale di Philip Roth e Bellow: due Americhe a confronto, nel segno della rinascita Anni Sessanta
Molti anni fa, al Goethe Institut di Roma, andai a un dibattito cui presenziava anche Umberto Eco. Alla fine, una signora del pubblico gli rivolse una domanda. Era curiosa di sapere se l’attività di semiologo, con l’analisi intensa dei testi letterari che ne consegue, non gli facesse passare il gusto della lettura. Ricordo ancora l’acuta risposta di Eco: «Signora mia, cosa posso dirle? Anche i ginecologi s’innamorano».
Quest’aneddoto mi torna alla mente spesso, e ancor più in questi giorni, quando ragiono di libri e m’immergo in intrecci narrativi complessi, come quello di cui palerò fra poco.
Diciamo subito che non è un caso (e non si tratta solo di cameratismo) se Philip Roth ha speso parole entusiastiche per l’amico Dick, al secolo Richard Stern, e il suo romanzo Le figlie degli altri. Al di là della lunga amicizia e della stima reciproca, non sono pochi, infatti, i punti di contatto fra i due nella scelta e nel trattamento dei temi; ma dove Roth è spesso sopra le righe ed esagerato (nonché, talvolta, assolutamente geniale), Stern si mantiene su un registro medio “classico”, che infonde piacevolezza e spessore alla narrazione senza voli pindarici ed effetti particolari, ma anche senza troppe sorprese. Ne risulta un romanzo ben strutturato e vivace, con una figura di protagonista – un professore di Harvard – reso con grande cura e, direi, partecipazione in tutte le sue contraddizioni e infelicità. Forse Roth ha usato un’iperbole impropria parlando, come strilla la quarta di copertina, di una Lolita scritta da Cechov, ma di certo siamo di fronte a un autore da leggere, proprio come molti altri scrittori che sgorgano da una vena inesausta e apparentemente inesauribile della letteratura statunitense dello scorso secolo – da Simmons al Williams di Stoner, da Maeve Gallant a Yates – che al lettore italiano è capitato, grazie a opportune traduzioni, di riscoprire negli ultimi anni.
Pubblicato nel lontano 1973, e ora tradotto da Vincenzo Mantovani per Calabuig (Jaca Book) senza accusare peraltro i segni del tempo, Le figlie degli altri è il preciso racconto di una crisi. Il quarantenne protagonista, un docente di fisiologia, dispera ormai di poter affrontare e superare la sua crisi matrimoniale, che dura da molti anni e sembra senza vie d’uscita. È in questa fase di stallo che incontra, non si sa quanto provvidenzialmente, un nuovo amore e riscopre en passant il sesso, in barba a tutti i suoi tentativi ragionati e scientifici di ridurlo a un meccanismo puramente fisiologico. L’irruzione nella sua vita della giovane Cynthia, che con la sua freschezza e il suo comportamento schietto rappresenta l’America effervescente degli anni ’60 e della liberazione sessuale contrapposta al puritanesimo bostoniano, spingerà il nostro professore a rimettere in discussione tutti gli apparenti capisaldi della sua vita, inducendolo a rinunce e privazioni morali e materiali per affrontare le quali scopre di non essere pronto. «Quasi tutto, ormai, era scandito dalla valenza delle ultime cose: l’ultimo Natale del suo matrimonio, l’ultimo in quella casa», scrive Stern, delineando una vera e propria cronaca del distacco. Il divorzio, la separazione dai figli e l’alea legata all’inizio di una nuova vita sentimentale sono resi con precisione chirurgica. In particolare, commuovono le pagine in cui si palesa la difficoltà del protagonista nel rendere conto ai figli, e in particolare al figlio minore, ancora piccolo, del passo che ha deciso di compiere e dell’irrimediabile allontanamento che ne deriverà.
Richard Stern è autore di una ventina di libri, fra romanzi, raccolte di racconti e saggi sulla letteratura; sebbene lodato dai critici, è rimasto a lungo misconosciuto anche negli Stati Uniti, tanto da poter essere definito da un critico «the best American author of whom you have never heard». Ex studente di Harvard – il che spiega fra l’altro la facilità con cui ambienta il suo romanzo nella Cambridge statunitense, cogliendone lo spirito e la (moderata) disperazione – poi per lunghi anni professore all’Università di Chicago, è stato a lungo uno dei protagonisti del dibattito culturale negli Stati Uniti, rimanendo anche implicato alla fine degli anni Cinquanta in un presunto e controverso caso di censura di alcuni testi di Burroughs e Kerouac sulla Chicago Review, che all’epoca Stern co-dirigeva.
Influenzato non solo dal più giovane Roth, ma anche da Saul Bellow, Stern adotta una prosa elegante ed erudita, ma non per questo pretenziosa, e s’impone all’attenzione del lettore anche per la generosità con cui descrive e mette in scena i propri personaggi, compresi quelli secondari (i colleghi e rivali, per esempio, o gli stessi figli del protagonista), fornendone un ritratto a tutto tondo, non esente da capacità introspettive e d’analisi e da una sensibilità che gli permette di comprenderne e talora giustificarne le motivazioni. Per non parlare poi dell’invidiabile competenza con cui discetta di questioni scientifiche e dell’ampiezza dei riferimenti culturali, che gli consente di spaziare da Shakespeare a Goethe (in particolare, naturalmente, Le affinità elettive), per tacere dell’esergo tratto dalla Vita nova. Ma anche questi riferimenti sono funzionali al testo e alla storia, non si riducono mai alla facile esibizione di nozioni e letture fatte. Stern è più che consapevole dei meccanismi narrativi e capace di attivarli con notevole maestria in un romanzo intenso, da leggere e su cui meditare.