Un testo di Mirella Taranto
Contro la ‘ndrangheta
“Ogni volta che guardi il mare” con Federica Carruba Toscano racconta in modo esemplare e potente la storia di Lea Garofalo, una donna che ha rivendicato la "normalità" di chi combatte il crimine
Non è semplicemente o solamente uno spettacolo sulla ‘Ndrangheta e contro la ‘Ndrangheta. Ogni volta che guardi il mare (Omaggio a Lea Garofalo) di Mirella Taranto è prima di ogni cosa un grido di disperazione, un flusso di coscienza che parla a chi non c’è più per parlare a noi, a chiunque. Avevo visto questo bel monologo, interpretato da Federica Carruba Toscano e diretto da Paolo Triestino, al suo debutto estivo a San Miniato. L’ho ritrovato qualche sera fa, in occasione dell’ultima replica romana al teatro Lo Spazio, in una pomeridiana affollata di spettatori entusiasti (anche molti addetti ai lavori) ed è stato davvero, un’altra volta e forse più della prima volta, un regalo artistico ed emotivo di straordinaria potenza. Perché nel racconto della protagonista, Sara, c’è tutta la necessità ancestrale e mitica di un nostos che è un viaggio di “ritorno” alle proprie radici, alla propria terra, ai propri affetti, alla propria femminilità, a se stessa. Perché nel racconto di Sara c’è l’immenso dolore di una figlia che rappresenta tutte le figlie e tutti i figli resi orfani da quella violenza cieca e feroce che non fa sconti a nessuno. Perché nel racconto di Sara c’è la storia vera di Denise Cosco, la sua tragedia personale e collettiva, la sua rabbia intima e sociale. E perché questo dire, così poetico e insieme così concreto, ci riguarda tutti e riguarda la nostra Storia di italiani, di cittadini, di madri, padri, esseri umani.
Un telo increspato come le onde del mare “turchese” di Calabria fa da sfondo a una scenografia essenziale e realistica (la cura Lucrezia Farinella) dove bastano pochi arredi, pochi oggetti, a ricostruire un passato “necessario” alla comprensione del presente: un tavolo, qualche sedia, una poltrona, un giradischi, una macchina del gas pronta ad accogliere nel suo forno quella torta all’arancia che Sara/Federica cucinerà in scena con tanto di farina e uova come fosse una dedica, estrema e pietosissima, alla madre morta: un legame impastato di odori e sapori veri con un aldilà più presente e vivo che mai.
In questo spazio della memoria e dell’infanzia, piccolo eppure infinito, Triestino disegna una regia morbida, semplice, discreta, che accondiscende le curve della scrittura e valorizza pienamente la forza della parole costruendo sull’interprete e con l’interprete – attrice palermitana di grande temperamento espressivo di cui ricordo le ottime prove in Io, mai niente con nessuno avevo fatto e Battuage di Vucciria Teatro – un personaggio femminile sanguigno e insieme lirico, a tratti attraversato da una tragicità classica a tratti, invece, calato in una nostalgica disillusione quasi cechoviana. Come tante figure di Cechov, Sara parla infatti a chi non può più ascoltarla. E inizia con qualche frase in dialetto, addentrandosi cauta – i capelli lunghissimi legati in uno chignon, l’abito largo, le buste della spesa in mano – in quel fiume di ricordi che quella terra ritrovata, quel mare di nuovo suo, quella casa disabitata da tempo le susciteranno da lì in poi: “Io ci sono cresciuta con l’odore del mare che mi raccontava mia madre. Il mare mio, diceva, profumava d’origano e di finocchio selvatico. La sera, dalle case che sventravano la spiaggia, saliva invece il profumo di basilico e pomodoro […]”.
Lea Garofalo è già lì, con lei. Con noi. L’appassionato assolo della Carruba Toscano, presentato negli scorsi mesi in qualche scuola del Sud ed ora edito dalla casa editrice La mongolfiera, ci tira dentro la vicenda e la tragica scomparsa di Lea (il suo corpo arse per tre giorni e ne rimase solo qualche ossa) con continui passaggi dalla sfera privata a quella della cronaca: il coraggio di una madre che dice no alla malavita, che diventa testimone di giustizia, che si mette contro i suoi parenti più vicini, che fugge altrove per dare un futuro migliore alla sua bambina somiglia al coraggio di tante altre donne e non può che evocare altri fantasmi dai chiari riferimenti biografici. L’autrice, giornalista scientifica con studi filosofici alle spalle, è infatti anch’ella calabrese e nella sua splendida scrittura vibrano tremori e visioni di un’umanità scolpita nel profondo. Mentre Denise dice e ricorda e rinasce, ecco rinascere zia Carmela, una zia nubile devotissima a Gesù che beve la gassosa di nascosto pensando sia peccato e che si veste bene ogni volta c’è Mike Bongiorno in Tv perché immagina che lui la guardi. Ecco rinascere quel prete che insegnò a Lea un modo “diverso” di pregare. Ecco i cugini, i compaesani, la nonna “quasi muta”.
Questa coralità verghiana è tuttavia una sorta di valore aggiunto che nulla toglie alla denuncia politica: le indagini e l’iter giudiziario del processo che portarono alla condanna di Carlo Cosco, padre di Denise, e di altri affiliati della ‘Ndrangheta per l’omicidio di Lea Garofalo (avvenuto la notte del 24 novembre 2009) vengono ricostruiti dalla Taranto con estrema scrupolosità e precisa attinenza ai fatti. Solo che, in questo lavoro (atteso a Crotone per l’8 marzo in occasione della Giornata internazionale della donna), i fatti si aprono a un respiro umano complesso, contraddittorio, fluttuante nei sentimenti – mai netti, mai definitivi – della vita. Un respiro che lascia intravedere persino il bisogno, l’urgenza, di perdonare.
Qualche gioco di luce, qualche canzone canticchiata a cappella o mentre il disco gira (da Rita Pavone a Rino Gaetano fino ad un accenno di De André) accompagnano Sara nella sua veglia sempre più intensa, più agitata, più dura. La Carruba Toscano si offre totalmente al personaggio, si scompone i capelli, si accovaccia a terra come una bambina impaurita, sorride e poi piange, attraversa tutto il dolore della sua Sara ed è credibile sempre, anche quando – e tanto più quando – racconta di quel fidanzato (Carmine Venturino) che, complice di Cosco nell’omicidio di Lea, non ha mai avuto il coraggio di dirle la verità. Mentre l’amore è tale “perché rivela”.
Dopo tanto scomporsi, arriva infine il momento di tornare alla pace: la torta è pronta e madre e figlia fanno colazione come ai tempi dell’infanzia. Le luci piano piano calano mentre si sentono le parole di una lettera/testamento che, se Lea avesse potuto scrivere prima di morire, direbbe molto probabilmente così: “[…] E non desiderare mai che una spugna cancelli il passato perché non esistono solventi per il dolore. Puoi solo attraversarlo e capovolgerlo. E cerca di salvare tutto ciò che è amore…..Non sentirti mai sola. Io ci sarò sempre accanto a te. E mi troverai. E sentirai la mia voce se la cerchi dentro. E ogni volta che guardi il mare. E se solo tu un giorno avrai capito, e se mi avrai perdonato, allora sì, Sara, che, dovunque io sarò, io avrò vinto”.