A cent’anni dalla nascita
Bassani poeta
Era la poesia la “sostanziale” dimensione dello scrittore e tutta la sua opera di narratore lo conferma. Perché i paesaggi, i sentimenti, le figure presenti nei suoi versi ritornano nei romanzi. Del resto, anche Montale notava nel suo linguaggio «le possibilità tonali della lirica»
Oggi, 4 marzo, ricorre il centenario della nascita di Giorgio Bassani. Nel volume In rima e senza (Mondadori, 1981) è raccolta la sua intera produzione poetica che precede (1942-1950) e segue (1974-1978) quella narrativa. Bassani ha ripetuto più volte di essere un poeta, «sostanzialmente un poeta», e dichiarato che la seconda parte di In rime e senza è stata dettata dal bisogno fondamentale di dire in versi ciò che nel Romanzo di Ferrara non aveva detto esplicitamente. Nel risvolto de L’alba ai vetri si legge: «Non sarà chi non veda come tutta l’opera di Bassani narratore provenga da questi versi, fin dai primi». Il giudizio è quanto mai appropriato. Si pensia Cena di Pasqua (che richiama il capitolo settimo della parte terza de Il giardino dei Finzi Contini) o a Sogno (che richiama in generale la figura del padre e in particolare la parte quarta del capitolo nono), ai celebri versi di Te lucis ante citati nella parte sesta del capitolo quarto («come la verità/ come essa triste e bella») o all’Orfeo della terza parte dello stesso capitolo (che richiama Adieu e Muore un’epoca). Non è poi chi non veda come il paesaggio e il sentimento di Verso Ferrara ritornino in Gli occhiali d’oro e in L’airone o come Per il parco di Ninfa sia prefigurazione del giardino di Micol, quel giardino che assume sempre di più una colorazione funebre, si colora sempre di più dei colori della morte.
Certo L’airone è il più lirico dei romanzi dello scrittore ferrarese. L’avventura spirituale di Edgardo Limentani, israelita senza fede appartenente alla borghesia agraria ferrarese, si svolge nello spazio di un giorno ed è la storia di una conversione alla morte. La rivelazione avviene durante la caccia: «Niente più gli appariva come reale… Vero e non vero, visto e immaginato, vicino e lontano: tutte le cose si mescolavano e si confondevano fra di loro. Perfino il tempo normale, quello dei minuti e delle ore, non c’era più, non contava più». La morte dell’airone è il simbolo della condizione umana. Il buffo uccello, che sembra quasi un errore di natura, vince nella morte la sua condizione e, nella inutile lotta per la sopravvivenza, afferma il suo diritto a esistere veramente. Di fronte alla vetrina dell’imbalsamatore, sulla piazza deserta di Godigoro, Edgardo Limentani prende coscienza di questa generale verità: «Di là dal vetro il silenzio, l’immobilità assoluta, la pace. Guardava ad una ad una le bestie imbalsamate, magnifiche, tutte, nella loro morte, più vive che se fossero vive». A proposito di quel romanzo Cesare Garboli in Quando l’airone chiude le ali, «La Fiera Letteraria» n. 44, 31 ottobre 1968, scrive: «… In un mondo che non vuole più saperne di vivere, nel suo grandioso “trionfo” la morte non poteva imbattersi in un antagonista, in un dissidente di più cocciuta, resistente anima laica».
Ricordo il mio primo incontro con Bassani (a destra in un ritratto di Carlo Levi, ndr), avvenuto il 7 aprile 1983 nell’Aula Magna del Convitto Nazionale, alla presenza del preside e degli alunni dell’Istituto magistrale Isabella d’Este di Tivoli, per parlare del volume In rima e senza, e rimasto consegnato alle pagine di un giornale locale, «L’Aniene», n.7-8, 30 aprile 1983: prima la lettura di Verso Ferrara, L’ho già detto, Mi chiedi perché mai e quando, Davvero cari non saprei dirvelo, La cuginetta cattolica, Rolls Royce, Le leggi razziali, I giocatori, Valzer e poi la ricostruzione delle vicissitudini cinematografiche de Il giardino dei Finzi Contini. Ricordo che a proposito dei componimenti di Epitaffio, dopo aver richiamato l’infelice giudizio di Natalia Ginzburg e quello pienamente convinto di Pier Paolo Pasolini, avevo sottolineato la ripresa di un motivo qua e là già presente nelle prime raccolte rilevando come Angelus e L’alba ai vetri sono posti non a caso uno dietro l’altro, in sequenza, a comunicare una medesima inquietudine: prima «la luce estrema dell’angelus» e poi, «l’alba ai vetri» (il «di là dal vetro» come «dietro la porta» che ritorna, come un leit-motiv, da Serenata e Dai bastioni orientali a Storie dei poveri amanti e Mascherata). Bassani aveva aggiunto che quei componimenti sono da un punto di vista semantico lapidi, epigrafi, benché ispirati per contrasto a un profondo senso della vita perché «l’epitaffio fa rivivere il presente nel passato». In proposito basterà richiamare A un professore di filosofia («Questa minima/ frangia di semivita»), I grandi («quel/ piccolo margine d’anni che ancora ci resta da vivere»), e ancora Isola Bisentina («Come è bella la vita e che peccato/ dover lasciarla… »), A Franco Fortini («e passare per dei Bassani e dei Fortini»), Salto di Fondi («che non ci sto che non appartengo che la vita/ è altrove che è un’altra/ cosa») e Tennis club («un grande occhio celeste»).
Per citare i versi conclusivi di Alla stessa, un componimento proverbiale dell’ultima raccolta, In gran segreto (1978), la poesia di Bassani sembra venire tutta da quei luoghi donde «per solito non si ritorna respirando anzi mai e/ poi mai». Di quest’ultima raccolta si vedano anche Tale e quale, Muore un’epoca, In un orecchio, Brindisi per l’anno nuovo e Amori impossibili.
Eugenio Montale, recensendo in «Il Mondo Artistico e Letterario» del 1° dicembre 1945 le Storie dei poveri amanti, sottolineava «il temperamento di scrittore aperto a molte vie» e notava la presenza del prosatore «nel tessuto del verso che rifugge da ogni astrazione sonora e si vale di un linguaggio ch’è realistico, ma non contraddice mai alle possibilità tonali della lirica». Se il tono e l’impasto di linguaggio di quel primo volumetto rimandano a Montale, cadenze e stilemi d’impronta montaliana riaffiorano poi in Un’altra libertà, da Ars poetica («E non resti di me che un grido, un grido lento/ senza parole. Nessuna mai parola: ché premio/ m’eri, o frana celeste ed intima, tu sola») a L’alba ai vetri («L’alba ai vetri e la musica d’un piffero e un tamburo/ volava a me con lieve, vaneggiante allegria») e Qualche volta («La pietà che le assume è una cera lontana/ che nessuna voce umana può incidere»).
In conclusione, sottolineando come il Geo Josz di Una lapide in via Mazzini, chetorna a Ferrarail giorno stesso che gli operai stanno mettendo la lapide col suo nome, sia richiamato significativamente per le sue valenze autobiografiche (più volte infatti Bassani ha dichiarato: Geo Josz sono io») proprio alla conclusione de Il romanzo di Ferrara in Laggiù in fondo al corridoio («Chi ero io in fondo? – Era tempo che cominciassi a domandarmi, appunto come nelle ultime righe della Lapide s’era domandato Geo Josz – Un poeta, e va bene. Ma poi?»), vorrei ricordare, In un orecchio di In gran segreto («Ero molto lontano non sai/ quanto./ Ti ho stretto forte la mano per restarti/ accanto per non tornarci mai più/ là»), che fa pensare ancora una volta a Una lapide in via Mazzini, alla ben nota considerazione del capitolosecondo: «Veniva da molto lontano, da assai più lontano di quanto non venisse realmente».