Uno spettacolo da non perdere
Un teatro di donne
Maria Paiato e Arianna Scommegna, dirette da Veronica Cruciani, giganteggiano in scena in “Due donne che ballano” del catalano Josep Maria Benet i Jornet. Storie di ordinario fallimento dove le parole non bastano a sopravvivere
Un’anziana signora burbera, maniacale, provocatoria e dannatamente sola e una giovane collaboratrice domestica taciturna, sofferente, sospesa in una rassegnazione quasi misteriosa. Si incontrano. Si scontrano. Litigano. Convivono ore sotto lo stesso tetto. Urlano. Parlano di malattie, medicine, spesa. Rovistano nei dolori l’una dell’altra. Si feriscono in modo tagliente. Lasciano trapelare qualche ricordo. E intanto lievita tra loro un’empatia che ha il respiro dell’umanità intera, un senso di tacito, amorevole, accudimento reciproco grazie al quale esse si metteranno totalmente a nudo e sugelleranno – insieme – la loro tragica resa alla vita. È una partitura per attrici il testo Due donne che ballano del catalano Josep Maria Benet i Jornet (classe 1940) e lo è tanto più nell’allestimento prodotto dal Teatro Carcano di Milano che Veronica Cruciani ha pensato per due grandi interpreti come Maria Paiato e Arianna Scommegna. Davvero sublimi nel restituire la crescente intimità con cui queste due creature sgualcite dal destino tentano di dare ancora senso alle loro esistenze.
Talmente brave che lo spettacolo – visto a India nei giorni scorsi – è di quelli che difficilmente si dimenticano: di quelli che risuonano dentro l’emotività del pubblico proprio perché si viene catturati dalla straordinaria fluidità e minuzia espressiva di una prova recitativa fuori dall’ordinario. La Paiato – come sempre – non sbaglia una battuta; sembra compenetrata del tutto nel suo ruolo di vecchia rompiscatole. È naturale, semplice, diretta, eppure passa con estrema sottigliezza da un registro all’altro, da una smorfia a un sorriso, da una voce caricaturale a una dimessa, da un gesto rude a uno morbido, con quella luminosa spontaneità che le è propria (come dimenticare certi passaggi della Maria Zanella o dei tanti altri personaggi che ha portato sulle nostre scene?), e finisce col regalarci una figura gigantesca. La Scommegna lavora su altri moduli, è più distaccata, più epica, più implosa, più cauta nella ricerca di una tavolozza espressiva varia ma non per questo meno incisiva. Anzi, è proprio la contrapposizione armoniosa di queste due diverse modalità di costruire i personaggi a favorire il loro pietoso rincorrersi, rifiutarsi, accettarsi e in definitiva comprendersi.
Entrambe sole ed entrambe alla ricerca di una strada che le riscatti dal passato, esse somigliano infatti a due animali in gabbia che agiscono in preda ad un istinto di sopravvivenza solo alla fine compromesso. Ma tra l’incipit e l’epilogo c’è tutto il peso di quello spazio chiuso che la scenografa Barbara Bessi disegna con lineare incisività, dando forma a un appartamento molto modesto dove spiccano una libreria affollata di fumetti (si capirà presto che essi sono il gancio con cui l’anziana padrona di casa si tiene attaccata alla vita), un tavolo molto rudimentale, una cucina nascosta sul fondo e un “altrove”, un “fuori”, avvertito, quasi beckettianamente, come una minaccia e tuttavia come una possibilità di fuga.
Anche la Cruciani inclina per una regia sobria, misurata, costruita soprattutto per scandire le sfumature recitative delle interpreti: stacchi di luce da un quadro all’altro, momenti di emblematico silenzio, la musica solo laddove prevista nel testo poiché epifanica di qualche cambiamento emotivo o mentale importante. Il tempo sembra poi del tutto indefinito, sospeso. E mentre trascorre, al di là di certe eccessive ripetitività che si sarebbero potute tagliare, sempre più evidente si fa la consapevolezza che a sostenere questa pièce non sia tanto la storia – molto esile a ben vedere – ma la lingua: la parola, l’energia (anche compassata) che sprigiona dal bisogno di ascoltarsi e di raccontarsi. Dapprincipio alla curiosità morbosa della vecchia fa da controcanto la ritrosia ombrosa della più giovane. Poco a poco però esse ci si rivelano in tutto il loro dolore. La prima ha due figli che non si prendono cura di lei, un matrimonio infelice alle spalle e una vedovanza che le ha regalato l’ebrezza di poter esaudire un sogno: collezionare un impressionante numero di quei fumetti che leggeva da piccola e che ora tratta con religioso riguardo. La seconda è laureata in lettere, insegna in una scuola privata, arrotonda facendo lavori più umili e ha perso un figlio di sei anni, ucciso “involontariamente” dal padre durante un litigio. Ma quel figlio per lei non è mai morto.
Questo loro parlare parlare parlare suona tanto più teatrale perché lievita in alcuni passaggi ben precisi: quando la badante regala l’ultimo fascicolo della collezione di fumetti all’anziana, quando questa a sua volta fa dono alla sfortunata insegnante di un breve soggiorno a Venezia e quando – tanto più – esse riescono a sorridere, e persino a ballare, sulle note della canzone Something stupid di Frank Sinatra (qui citata anche nella recente versione di Robbie Williams). Le distanze dunque si fanno vicine. Il senso claustrofobico cede il passo a una speranza, a una luce. La musica -soprattutto – sembra poter segnare una svolta leggera, positiva, un po’ come succede con la tarantella di Nora in Casa di bambola. Ma sono mere illusioni. E il finale arriva perentorio a invertire la rotta con una risposta drammatica feroce: un suicidio grottesco, furioso, ubriaco di pillole, risate e paura che – ed è un vero peccato a mio parere – svilisce la validità taumaturgica proprio di quel “dire” in cui le protagoniste hanno caparbiamente cercato una qualche maledetta forma di reazione alla sofferenza e alla brutalità della sorte.