Al Teatro Astra di Torino
Trent’anni dopo
Beppe Navello riporta in scena, dopo tre decenni, la sua invenzione dei "Tre moschettieri" di Dumas in otto puntate. Una provocazione perfetta contro l'equivoco della "semplicità”
Beppe Navello, a trent’anni di distanza, rimette in scena una sua brillante invenzione: la rappresentazione teatrale dei Tre moschettieri di Dumas a puntate. Con varie mani registiche e drammaturgiche, ma in un luogo e con una sola, nutrita compagnia d’attori capaci di unificare il risultato finale. Ho assistito alla prima delle otto puntare che il progetto prevede nell’edizione del trentennale al Teatro Astra di Torino: quella dell’arrivo a Parigi di D’Artagnan e della nascita del suo sodalizio con Athos, Porthos e Aramis. Quasi una giocosa premessa – arricchita dalle belle canzoni di Germano Mazzocchetti e dalle sontuose scene (e dai magnifici costumi) di Luigi Perego – delle sette puntate che seguiranno settimana dopo settimana fino al primo maggio, in un calendario fitto che vedrà all’opera, dopo Navello, i registi Gigi Proietti, Piero Maccarinelli, Myriam Tanant, Andrea Baracco, Robert Talarczyk, Ugo Gregoretti e Emilano Bronzino. In scena, da ora in poi, saranno protagonisti Alberto Onofrietti, Diego Casalis, Matteo Romoli e un sorprendente Luca Terracciano nei ruoli dei quattro moschettieri, più un nugolo di bravi attori nati e cresciuti sotto l’ala della Fondazione Teatro Piemonte Europa (da Alessandro Meringolo al formidabile Fabrizio Martorelli, da Maria Alberta Navello a Daria Pascal Attolini), senza contare l’apporto del bravo Gianlugi Pizzetti, qui in scena – come trent’anni fa – nelle vesti di re Luigi XIII.
Ebbene, sappia il lettore che ho diviso un lungo tratto di strada (d’amicizia e di teatro) con molti di questi protagonisti; e sappia pure che trent’anni fa fui in platea, all’Aquila, ad assistere a (quasi) tutte le puntate di quel bizzarro esperimento nella mia veste di spettatore professionista, ma ciò non mi impedisce di cercare di capire con voi quale sia il senso di questa azzardata, azzeccata provocazione scenica. Quando essa ebbe vita la prima volta, nel 1986, il nostro Paese era preda di una trasformazione che sarebbe stata epocale e che – sull’onda del successo delle cosiddette reti televisive commerciali, leggi l’estetica mercantile berlusconiana – avrebbe modificato nel profondo il dna del nostro immaginario e del nostro gusto. Stavamo cominciando ad accarezzare il peggio di noi stessi: egoismi, soperchierie e privilegi vari stavano iniziando a diventare la norma del nostro vivere. Anche (se non soprattutto) in riflesso al consumo di spettacolo. Che poi voleva dire il consumo di immaginario condiviso: ossia ciò che di norma produce cultura, saperi, gusti e stili di vita. Da allora in poi, abbiamo fatto a gara a produrre orrori nel nome della semplificazione, del malinteso valore intrinseco della “gente comune”.
Teatralmente, in quegli anni s’era nel pieno dell’equivoco post-moderno: quella categoria che ha consentito alla società culturale (e imprenditoriale, e politica, ed economica) italiana di passare dall’era contadina a quella post-industriale (e del trionfo del Web) senza passare per una rivoluzione di fondazione (industriale, ma anche sociale, fatta di consapevole divisione tra borghesia e proletariato). Un fenomeno di comodo, dunque: come stendere un enorme tappeto sotto il quale nascondere la polvere delle proprie carenze. Beppe Navello, allora, con quella sua invenzione pop alzò il tappeto e mostrò la polvere. Dicendo che anche lì, ossia anche in ciò che la società nascondeva di sé, potevano trovarsi i germi di un immaginario da condividere. Sembrerà banale dirlo proprio in questi giorni, ma è stato proprio Umberto Eco (in specie con un magnifico saggio sul Conte di Montecristo) il primo a insistere sull’importanza dell’immaginario popolare e della sua semplicità nella definizione di un’identità collettiva. C’è più vita in un romanzo di genere – spiegava Eco – che in un catalogo di dolori filosofici. Cosa che Beppe Navello e i suoi collaboratori dell’epoca cercarono di dimostrare coi fatti. Chi c’era, ricorderà il successo inatteso, quasi clamoroso dell’operazione.
E oggi? Oggi il clamore è stato il medesimo. Con i giornali di carta (tutti) in fila a lanciare l’evento. Con le televisioni nazionali pronte e raccontarlo, con il pubblico in coda davanti al botteghino per non perdere una sola delle otto puntate in programma. Di nuovo qualcosa di fragoroso, appunto. E il senso è rimasto lo stesso: un grido d’allarme in favore del buon senso. Ma, se nel 1986 il “nemico” era quel narcisismo post-moderno che tramortiva i gusti del pubblico a suon di elucubrazioni finali (s’era alla fine della stagione dell’impegno) sulla morte dell’arte, ora il bersaglio è più infido. È la semplicità del cattivo gusto. È quella presunta legge di mercato che mette fuori gioco, ipso facto, tutto ciò che impone riflessione, esercizio critico, sforzo mnemonico, analisi della storia… Ebbene, i Tre moschettieri di Beppe Navello edizione 2016 sono la dimostrazione pratica che anche nella leggerezza possono risiedere delle idee. Anzi, dimostrano che perché un’idea sia leggera (come diceva Italo Calvino nelle sue Lezioni americane) è necessario che essa sia la somma di una grande articolazione di analisi e di estetiche: la semplicità non è un valore in sé, quand’è priva di idee. Questo ci spiegano i nuovi Tre moschettieri: non basta essere superficiali per avere successo; si può anche avere fortuna con un progetto complesso reso “semplice” dall’apporto creativo di tanti soggetti (registi, autori, attori, scenografo, musicista, maestro d’armi, ecc.). Come dire? La semplicità è un fine, non un mezzo.
Resta da riflettere su un ultimo dato. Navello e la sua istituzione sono stati bravi anche a costruire l’evento: parola magica, quasi un re mida della cultura di oggi, come se l’apparenza contasse più della sostanza. Senza presunzione (e forse con un poco di malizia), la Fondazione Teatro Piemonte Europa ha dimostrato che, se il problema è quello (montare un evento, quasi tutto ormai perseguisse le regole di Facebook), ci si può lavorare adeguatamente per realizzarlo al meglio. Salvo che quel “meglio” prevede ancora una volta idee, senso critico, capacità di azzardo artistico. Per dire: a metà del primo spettacolo della serie, l’azione si interrompe per consentire agli attori di fare pubblicità a delle sciarpette, il cui produttore è tra gli sponsor di questi Tre moschettieri. Pubblicità, insomma, che fa il verso agli spot. I cui proventi concreti in termini di denaro sono nulla nei confronti del clamore mediatico (così si dice) che questa semplicissima parodia della commercializzazione della nostra vita quotidiana ha prodotto in favore dello spettacolo. Un’altra lezione di stile, insomma.