Fa male lo sport
Storie di Juve-Napoli
Ormai è un “clasico“ del nostro calcio. Ma quanti simboli ci sono dietro alla sfida tra nobili e scugnizzi! E quanti miti perduti: dai tradimenti di Altafini ai miracoli di Maradona
Se Milan e Inter non si offendono, Juve-Napoli può considerarsi ormai un “clasico”, il nostro “clasico”, così come gli spagnoli ritengono tale Real Madrid-Barcellona. Non fosse che per le forti contrapposizioni, come nella sfida spagnola. Il bianco e nero non solo del calcio, non soltanto i colori della Juve. Piuttosto, il Nord e il Sud. La Fiat e la Cassa del Mezzogiorno. Il Marchese con la tuba, la caramella ed il pastrano contro quell’altro, un brutto arnese con la scopa in mano, il morto poverello, il netturbino. Schiacciante la superiorità sabauda contro la scugnizzeria. Solo a Torino, da quando esiste la serie A, cioè dal 1929-30, 42 vittorie della Juve, 20 pareggi e 7, soltanto 7, vittorie del Napoli.
Sarà anche vero quello che scrisse Erri De Luca, e cioè che è il trionfo breve a restare perfetto nella memoria. Non le dozzine di scudetti, ma il paio. Però il viaggio da Trevico a Torino è costato sempre lacrime napulitane. Tant’è che, quando è stato fatto lo sgambetto, si è parlato di impresa e si è messo mano all’epica (o all’ironia) e c’è chi ha scritto di “presa di Torino”. Maurizio De Giovanni ha fatto un fermo immagine di quel Juve-Napoli 1-3 del 9 novembre del 1986, viaggio su Regata diesel di quattro Malati (i tifosi del Napoli) verso la Gloria. E la partita la presentava così: «Loro belli, alti, simili nel fisico e nel tratto: Tacconi, Manfredonia, Cabrini, Serena, Laudrup. Magri, sereni, sciolti e tranquilli. E per di più, con la scritta “Ariston” sulla maglietta, in greco “il meglio”, e ti pareva. Un motto, più che una marca di cucine. Noi invece, “Buitoni”… I nostri: Garella sembrava un orango, senza collo sotto una massa di capelli da strega. De Napoli aveva la faccia da befana. Bagni, con le sue gambe a tunnel. Bruscolotti, con la mascella degna di uno studio di Lombroso… Quanto a Lui, be’, era come al solito: slanciato, biondo e con gli occhi color del cielo. E alto due metri, col mantello a coprirgli le ali».
Lui, biondo e slanciato, era Maradona, che quella domenica aveva un occhio nero. Lui che non firmò nessun gol, realizzati invece dagli operai specializzati Ferrario Moreno da Linate, Giordano e, nientemeno, il Cipputi Volpecina. Piccole soddisfazioni in anni drammatici. Il capoluogo campano subiva un declino inesorabile, la terza città industriale si stava impoverendo a poco a poco, i grandi stabilimenti o chiudevano o l’avrebbero fatto di lì a poco: la Cirio, l’Italsider (dove aveva lavorato il padre di Sarri), la Manifattura Tabacchi. Le Partecipazioni statali ridimensionate, la Cassa chiusa agli inizi dei Novanta. Non c’era un destino post-industriale per il futuro. E i morti di camorra si contavano per le strade. Come oggi. C’era Maradona a regalare un po’ di gioia. Effimera e passionale. Un triangolino di stoffa con tre colori cucito su una maglia. Su una città che era stata retrocessa. E Lui era un lusso.
Anche nel ’75, quando Ferlaino prese Savoldi (nella foto) dal Bologna, un affare di circa 2 miliardi, si gridò allo scandalo. Come avvenne quasi dieci anni dopo per l’acquisto di Diego. Savoldi arrivò in una Napoli insozzata da uno sciopero degli spazzini. Fu facile accostare le due cose. Ma Enzo Biagi scrisse sul Corriere della Sera: «L’ingegnere Ferlaino non è né un dissipatore né un Pulcinella: è un freddo manager che si adegua alla realtà… Non ha offeso la miseria, caso mai l’ha consolata. E poi, siamo onesti: Napoli non va male perché hanno comperato Savoldi, ma perché non possono vendere i Gava».
Prima di Maradona, Giordano e Bagni contro Platini, Laudrup e Tacconi erano 29 anni che il Napoli non vinceva a Torino. Bisognava risalire ad un’altra epoca, alla fine degli anni Cinquanta. Sempre a novembre ma 1957. Da una parte c’erano Boniperti, Sivori, Charles; dall’altra Bugatti, Vinicio e Pesaola. Lauro alla vigilia raddoppiò il premio partita. Finì come nell’86: 3-1. Passarono altre ere glaciali prima di un altro blitz. 31 ottobre 2009, il Napoli di Mazzarri, sotto 2-0, riesce a rovesciare il tavolo: Hamsik, Datolo e ancora Hamsik. E qui Raffaele Auriemma, il più fazioso dei telecronisti, urlò a squarciagola al microfono: «Seppeliteci qui, vogliamo morire qui…».
Volevano morire, i tifosi del Napoli, nell’aprile del 1975 quando Altafini core ’ngrato, maglia numero 13, prestazioni a gettone per una carriera da Oscar ormai ai saluti finali, buttato dentro da Parola alla mezz’ora del secondo tempo al posto di Damiani, a due minuti dal termine andò a segnare il gol del 2-1. Una rete che valse un altro scudetto alla Juve. Bruciò, Altafini (7 anni con la maglia azzurra e 97 gol, perciò core ’ngrato), le speranze di un Napoli bellissimo, quello guidato dal suo antico centravanti, Luis Vinicio, che prima di quella sfida fatale era appena due punti sotto la capolista bianconera. Ma proprio in quel campionato, all’andata, la Juve aveva sbancato il San Paolo: 6-2, una cosa mortificante, un dominio assoluto. Tanto per gradire.
Juve contro Napoli, un capitolo lunghissimo nel romanzo del campionato. Tra gol, giocatori scambiati, colpi di tacco e colpi bassi, risse, polemiche, rivalità. Perché, ad esempio, nel dicembre del 1968 al San Paolo successe di tutto. Montefusco che segna una doppietta, Sivori che si scontra con Favalli e viene espulso, Salvadore che sferra un pugno a Panzanato che prese però 9 giornate di squalifica, 6 a Sivori che a quel punto decise di smettere di giocare. Fu la sua ultima gara. Il grande Cabezon che aveva lasciato la Juve con l’arrivo di Heriberto Herrera ed aveva poi conosciuto a Napoli altri affetti e fasti, abbandonava il campo carico di gloria, di gol e di acciacchi. Non gli era riuscito l’ultimo tunnel.
Dybala e Higuain sono soltanto gli ultimi argentini (o sudamericani) protagonisti da una parte e dall’altra. Il più grande di tutti, Maradona, fece qualcosa – novembre 1985 a Fuorigrotta – che voi umani non potreste immaginare. La punizione divina. Ottavio Bianchi la definì così: la punizione divina. Non erano le piaghe dell’Egitto. Era un calcio a due in area della Juve. Pecci che la tocca appena, Cabrini e Scirea che si parano davanti a Maradona, lui che calcia dando alla palla una traiettoria impossibile, Tacconi che non riesce ad evitare il gol. Bruscolotti la ricorda così: «Abbiamo perso due minuti con l’arbitro per dirgli che la barriera non era a 9 metri. Ad un certo punto Diego disse: “Vabbé, la tiro lo stesso, tanto gli faccio gol comunque”…». E Pecci: «Dissi a Diego: “Non ce la fai, non ce la fai”, e lui: “Dammela e non ti preoccupare”. Segnò, ma ancora adesso non so come abbia fatto».