Angela Scarparo
Contro il conformismo intellettuale

Siamo tutti un’Eco

Gli elogi in morte di Umberto Eco hanno offuscato la sua stessa capacità mimetica, quel suo trucco di far sembrare "facile" ciò che non lo è. Andando incontro all'illusione del pubblico

La cosa che fa tristezza non è tanto che si siano realizzate certe tristi riflessioni della fine degli Anni Settanta, (non quelle di Eco, che diceva altro) secondo le quali tutti e tutte sarebbero diventate scrittori e scrittrici, che i lettori e le lettrici sarebbero in proporzione diminuiti e la confusione ideologica avrebbe regnato. Questo ci sta, va anche bene, fa parte del gioco. Quale recente discorso (serio) sulle «magnifiche sorti progressive» aveva fatto presumere il contrario? È problematico invece il carattere degli specialisti di letteratura, o di chi dovrebbe essere tale. Prendiamo, per esempio, il caso di Eco. Come viene descritto  e storicizzato? Chi è Umberto Eco per giornalisti e (alcuni) studiosi? Se molta è stata (è) la sua fortuna, è altrettanto doveroso, o no, capire da cosa dipenda?

«Inventore della semiologia», dice qualcuno. Ora, a parte l’assurdità di una simile affermazione, che non starò qui a spiegare, c’è da dire che se chi parla riflettesse anche solo un po’ si renderebbe conto che la semiologia Umberto Eco «l’aveva avuta da Barthes» (Ceserani, 1999).

E però non è neanche questo, il senso di fastidio. «Eco inventore del bestseller», dicono infatti altri, con riferimento (spero) a Il nome della rosa, un romanzo uscito nel 1980. Non nutro particolari avversioni per il bestseller che, in sé, rappresenta solo un fenomeno che trae origine e si avvantaggia della grande confusione che domina la nostra epoca. Però una domanda mi viene da fare a tutti quelli e quelle che sul bestseller (o meglio sarebbe dire contro) ci scrivono tomoni. A quelli che chiedono poesie e romanzi sulla «vita vera», sulla «politica» come sul «precariato». Come fate, mi chiedo, a piangere la morte di Eco come quella di un maestro se proprio Eco fu uno dei principali teorici del romanzo costruito secondo formule precostituite, il migliore propagandista del romanzo come sterilizzazione dell’esperienza, il romanzo cioè come auspicato «sport nazionale» da sostituirsi al calcio, ben più pacchiano e volgare secondo il suo punto di vista?  Normale o no, in questo contesto pensare alla lettura e allo studio come attività predilette di tanti esperti di «parole crociate», altro che studiosi?

Per qualche altro Eco è stato un «padre della patria». Ammesso che l’affermazione abbia un senso, scusate, quando sarebbe successo? Può essere considerata una battaglia politica l’ostilità (peraltro giustificata) nei confronti di Berlusconi, espressa attraverso le settimanali Bustine di Minerva? E, se no, una simile affermazione su Umberto Eco è ridicola forse quanto, o forse più di quella che parla del filosofo di Alessandria come di «un collaboratore dei terroristi», in epoche remote. Va bene che, sempre in epoche non recenti, persino Ugo Tognazzi era stato indicato come fiancheggiatore dei terroristi, ma direi che insistere nel sottolineare le varie facce del personaggio Eco non ottiene altro risultato che far identificare la sua grande fortuna nel fatto di essere stato un uomo intelligente, un esperto di bestseller con poco talento come scrittore.

Il motivo per cui Eco piace (quasi) a tutti è che è rassicurante come scrittore. Dà l’impressione che, con un po’ di studio e di applicazione, l’erudizione sia alla portata di tutti. Che cosa era il suo Come si fa una tesi di laurea se non un manuale che, fintamente, metteva tutti nelle condizioni di laurearsi? Dico fintamente perché non dovevano passare troppi anni perché ci si rendesse tutti e tutte conto che le lauree prese potevano tranquillamente essere usate come carta da parati, e che le dinamiche dello studio e delle maturità sarebbe stato doveroso collegarle ai mutamenti sociali, alle modifiche tecnologiche, ai cambiamenti radicali che si stavano verificando nella società, e non tanto al modo di compilare le bibliografie.

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