A proposito di “Trittico del distacco”
Poesia del dolore
Nella sua nuova raccolta, Pasquale Di Palmo analizza il valore intimo e vano della memoria. E della sua impossibilità a tornare indietro insieme alla vita vissuta
Trittico del distacco è uno di quei libri necessari a chi li scrive che per qualche profonda ragione diventano fondamentali anche per il lettore: mentre l’autore esplora zone della propria esistenza altrimenti trascurate, sicuramente dolorose ma in qualche modo inevitabili, il lettore è chiamato non solo a partecipare della vicenda altrui, ma a fare i conti con i grumi interiori, la provvisorietà e le insicurezze della propria sfera privata. È un libro che nasce da un’urgenza esistenziale, da un travaglio in fondo autenticamente personale, che riesce a trovare in un linguaggio, sobrio essenziale eppure evocativo, la qualità con cui parlare agli altri, costringendoli a guardarsi dentro, a mettersi dinanzi alle proprie inquietudini.
Trittico del distacco di Pasquale di Palmo (edito da Passigli, € 12.50) è innanzitutto un viaggio nella memoria, nel suo aspetto più pietoso e difficile da sostenere, in quella sorta di scorata sofferenza che si presenta quando il ricordo cerca di trattenere quello che è andato perduto, si sforza tenecemente di lottare contro l’irrimediabile allontanarsi delle persone care. La raccolta è scandita in tre parti, a formare un trittico appunto, composto da immagini che si richiamano tra loro e che infine sembrano sovrapporsi in un unico, anche se frammentato, paesaggio interiore.
Appare significativo che il libro si apra, inaugurando la sezione Addio a Mirco, con versi che si richiamano al desiderio, peraltro irrealizzabile, di tornare indietro nel tempo, essere ancora un adolescente impegnato in “interminabili partite” su improvvisati campi di calcio in cemento “nel sole allucinato delle due e quaranta”, “la palla servita / al compagno più imbranato / che spreca l’occasione imprecando”. Nel gol mancato, nell’occasione consumata in un nulla di fatto, sembra essere contenuto il limite di ogni attività della memoria, che non può che rappresentare ormai che una vicenda sfilacciata e difforme dal vero, una realtà sognata ed evanescente, un’azione che arriva ad un passo dalla realizzazione e che invece non si conclude se non nella costatazione dell’inattuabilità.
L’addio al cugino Mirco, morto suicida, è contrassegnato inevitabilmente dal rito triste del distacco, ma è anche l’occasione per recuperare dal passato immagini frammentate eppure così vivide e intense: riemergono dagli anni giovanili il quartiere dove ha vissuto il poeta e dove ora passeggia ogni giorno sotto un cielo che “ha un colore schiacciato, di decomposta aringa”; l’incontro con un uomo dagli “occhi appuntiti come spilli”, che a distanza di tempo l’autore scopre essere lo scultore Alberto Viani (“Io, che appena lo ricordo, rimpiango / di non possedere una sua bagnante / in argento lunga pochi centimetri”); una pasticceria frequentata al termine delle partite “giocate in cappotto” (“Il pasticciere era un vecchio fiorentino / che si chiamava Marino. / Unica specialità il castagnaccio”), dove poi il poeta si recherà con il padre ormai “abbrutito dall’ictus” e dove “raramente appare qualcuno che conosciamo”, mentre “fuori sfrecciano gli autobus, / il cielo si divincola tra i rami”.
Il padre è poi protagonista della seconda parte del libro, Centro Alzheimer, che segna il progressivo, penoso distacco dalla vita, dell’uomo anziano senza più memoria. La sezione è introdotta da una bellissima lirica in dialetto veneziano: “Adesso ti xe un albero, papà. / uno di quei alberi / che non gà più bisogno de niente: / basta un fià de vento /un fià de piova / per viver na vita / piena de sgrìsoli, / de usignoli che se sgola. // Le fogie gà la to vose / e co s’ciopa el temporal / ti te riscàri co i lampi / ti te imboressi co i toni (…)”. Il padre a cui, nell’ultima fase della vita, sono ormai “sconosciuti / la saggezza e gli dei” e che è “inconsapevole di morire / essendo inconsapevole di vivere”, è diventato un albero a cui il vento offre una vita piena di brividi.
Il ricordo, che si palesa dunque essenzialemente come perdita, è un paesaggio oscillante tra la zona luminosa del ricordo, che lascia intravedere margini di una nostalgia che riporta a galla antichi sentimenti, e il territorio opaco che nasce dalla consapevolezza che ogni evento, ogni affetto è destinato a scomporsi e svanire. E’ un tema che si ripresenta ancora più incalzante nella terza sezione, I panneggi della pietà, formata da brevi prose, il cui ritmo è in sostanziale sintonia con le liriche delle precedenti sezioni. Le metafore derivate dal gioco del calcio si fanno più numerose, ma si tratta di uno sport vissuto a livello amatoriale e periferico, così come ancora più presenti sono le figure di uomini vinti dal destino. Il ricordo si ripresenta ancora una volta imprevisto, sotto forma di improvvise evocazioni, ma attraverso un linguaggio pacato, estremamente nitido. Come scrive Maurizio Casagrande nella postfazione al volume (la prefazione è invece affidata a Giancarlo Pontiggia). “le scelte linguistiche non risultano affatto gratuite dal momento che rispondono a una funzione catartica che àncora saldamente l’opera al vissuto, inverandola e confutando implicitamente ogni deriva orfica o asrattamente letteraria”.
Di Palmo, che è nato al Lido di Venezia nel 1958 ed ha al suo attivo diversi volumi di poesia, traduzioni e opere di saggistica, conferma di essere una voce significativa, sia pure spesso defilata, del panorama poetico nazionale.