Al Macro di Via Nizza a Roma
Merz, coppia d’arte
Una grande mostra rende omaggio a Marisa e Mario Merz, due artisti che si sono completati nella creatività come nella vita. Come se lui avesse sempre pensato ai mobili e lei ai soprammobili
Marisa e Mario Merz. Il titolo rovesciato con cui i tre curatori, Claudio Crescentini, Costantino D’Orazio e Federica Pirani hanno battezzato la mostra in cartellone fino al 12 giugno nel grande padiglione del Macro di via Nizza a Roma è già un manifesto d’intenti. E a suo modo di tentazioni.
L’idea era di invertire per una volta l’ordine con cui questa coppia di autori si è presentata per oltre mezzo secolo sui palcoscenici di tutto il mondo sbandierando il vessillo dell’arte povera, la corrente del Novecento made in Italy baciata da maggiore successo. E restituire finalmente a lei, l’attrazione più debole del cast, un’attenzione da protagonista e non il consueto ruolo, onorevole ma subalterno, di spalla. Mario Merz è morto 13 anni fa. A novant’anni compiuti Marisa continua a praticar la ribalta dell’arte. E comincia a veder riconosciuto come primattrice il proprio talento: tre anni fa la Biennale di Venezia l’ha incoronata, insieme all’austriaca Maria Lassnig, con un Leone d’oro alla carriera. Un atto di pieno risarcimento che invece qui al Macro le viene in gran parte negato. Da un copione che le nega l’esibizione solitaria e torna a rileggere e pesare i suoi lavori sulla bilancia mal tarata della biografia di una coppia famosa ad alto coefficiente di creatività. Un copione che inquadra lei e il suo contributo come «L’altra metà di…»: formula cui sempre si ricorre per parlare dell’arte al femminile, ma che diventa una rivendicazione da quote rosa, inadatta a misurare un condominio artistico tutt’altro che alla pari come quello tra Mario e Marisa Merz. Lui che cavalca la luce, lei che interpreta l’ombra.
Poco importa che a ricordare lui sia solo un piccole nucleo di opere. Basta l’impatto della prima sala a falsare le proporzioni del raffronto. A catturare il primo colpo d’occhio è un’istallazione gigantesca: una spirale al neon realizzata da Mario Merz poco prima della morte che si staglia sulla parete del salone del Macro, debordando nella sala successiva come l’abbraccio un angelo ad ali spalancate. Tra i bagliori di questa enorme chiocciola sono incorniciati dei numeri: evocano la serie di Fibonacci, un celebre matematico pisano che fissò con quella sequenza la genesi stessa della vita nelle sue forme più elementari, il trapasso dall’inorganico all’organico. «Merz – racconta Ludovico Pratesi – voleva innalzarla sulla parete del Foro di Augusto, ma il veto degli archeologi lo costrinse a sdraiarla come un tappeto tra i ruderi del Foro di Cesare. Per ripristinare l’idea originale qui l’abbiamo ricomposta in verticale».
E uno spettacolo abbagliante che toglie respiro alle altre opere con cui Marisa Merz nella stessa sala rivendica la sua presenza. Lavori che pure si rivelano di squisita fattura e d’innegabile forza concettuale. Come quella sorta di arazzo che occupa la parete alla destra dell’ingresso, composto da piccole sequenze di losanghe, all’interno delle quali incornicia sottili ricami di fili di rame di diverse tonalità. Una scelta di una tecnica al femminile come appunto il ricamo, che Marisa usa come specchio di un mondo interiore. Il divario di scala e ambizioni tra i due è però evidente. Mario sfida con prepotenza poetica l’Infinito, il mistero, Marisa giocando con registri più sottili li decora. Preferisce registrare il contrasto fra ordine e caos, caso e progetto, come nel recinto, esposto sempre nella prima sala nel quale lascia colare la cera a riempire e disegnare lo spazio, al centro del quale poi colloca una statuina. Suggestioni intense ma a bassa voce, che il «rumore» dell’istallazione di suo marito finisce per soffocare.
Una vocazione naturale, questo far controcanto, o una scelta, una rinuncia voluta, un farsi più in là? La mostra semina indizi in questo senso ma evita di ricostruire e spiegare il complesso gioco delle parti che ha tenuto così a lungo in vita e rappresentato all’esterno il loro rapporto di artisti in carriera. Chi e perché ha deciso questa suddivisione di ruoli che è scorsa via senza apparenti contrasti? Chi ne ha tratto più giovamento? I curatori affidano una possibile risposta a un espediente d’allestimento, isolando su una parete una frase scritta da Marisa Merz: «Sto con quella curva di quella montagna che vedo riflessa in questo lago di vetro, al tavolo di Mario». Sì, sembrerebbe proprio lei ad essersi confinata in disparte, come un’eco che prolunga la voce di un altro.
E quei tavoli in cui lei sembra viversi come riflesso esistono davvero. Li ha realizzati Mario Merz con i suoi materiali preferiti, il vetro e l’acciaio, seguendo le forme e i leit motiv del suo immaginario, per accogliere i lavori della moglie. In esposizione qui a Macro se ne vedono due. Sul primo, sagomato a spirale, è sistemato un campionario di quelle statuine di cera, i tratti del volto accennati come in una maschera arcaica, che da sempre Marisa Merz – scesa in campo come autrice a metà degli anni sessanta- ha modellato con un ricorrente ancoraggio alla figurazione che Mario Merz aveva invece presto abbandonato dopo un esordio primi anni cinquanta da pittore espressionista.
Forse è un atto che sigilla una totale sintonia tra i due. Ma l’impressione forte è piuttosto che si tratti di un dono, un omaggio, un riconoscimento tributato alla propria compagna, che comunque conferma aldilà della qualità delle opere a raffronto, lo squilibrio dei ruoli: lui confeziona e firma come un marchio doc i mobili, a lei il compito di metterci su i soprammobili. Sensazione rafforzata dal secondo tavolo, esibito in un’altra sala: un rettangolo di vetro trasparente su cui Mario Merz ha conficcato un palo di legno, che svetta e governa lo spazio come il perno di un sestante o di una meridiana, sistemando sul fondo una testina di cera della moglie. Un’opera a quattro mani, certamente condivisa, ma a imporre la visuale è anche qui la regia di Mario Merz. Lui l’architetto, lei l’arredatrice insomma.
Una scansione di campo, misure, che balza agli occhi nelle foto che documentano due apparizioni a breve distanza l’una dall’altra nei lontani anni Settanta nella galleria l’Attico di Fabio Sargentini, in un garage dietro piazza Flaminio entrato ormai nella leggenda. Mario invade quel grande hangar sistemando a terra e alle pareti assemblaggi di stuoie, foglie di palma, slitte di legni ad alto impatto visivo ed emotivo. Pochi giorni dopo Marisa invece è anche lei ospite dell’Attico, ma ci si muove in punta di piedi, lo trasforma in uno spazio domestico, lo arreda appunto: piccoli riquadri di fili di rame intrecciati, rotoli di coperte, altre operine alle pareti, vasellame e altri oggetti che spuntano da cassetti di credenze e comodini come in un salotto, una cucina qualunque. Lui grida a gran voce la sua estetica, lei invece la sussurra.
Una differenza che riflette anche lo scarto delle loro fisionomie: lui è un gigante, alto, spalle squadrate, faccia tagliata con l’accetta, lei è minuta, leggera, un volto rotondo, la voce sottile. Peccato che la mostra non offra appigli a queste impressioni verso cui, con le sue scelte di campo, ci induce in tentazione: non ci sono interviste, testimonianze dirette o indirette sui rapporti che legano questi due artisti avolte così simili, spesso così diversi.
C’è un solo momento di quella tournée romana fine anni Settanta in cui Marisa Merz sembra imporre, almeno una volta il suo estro. È quando chiede a Fabio Sargentini di farle sorvolare Roma, di vedere per una volta la città dall’alto. E il gallerista l’accontenta, ottiene da un amico l’uso di un piccolo aereo che decolla dall’aeroporto dell’Urbe, immortalato nelle foto di Claudio Abate invitato a documentare la scena. Da là sopra Marisa detta a Sargentini quote e coordinate di volo che lui registra su un foglio con una sequenza di numeri che poi finirà esposto in galleria. Cimelio di un’epoca perduta, come quel foglio andato purtroppo distrutto, in cui l’arte riusciva a smarrire i confini tra il nulla e il tutto e illudersi di impadronirsi così della vita e del mondo.
Per una volta anche Marisa, agendo in proprio e non come la metà di una coppia, sembra davvero puntare a questi traguardi. Ma forse è solo un’attitudine a interrogare l’aria, sentirla vibrare di presenze. La stessa che riaffiorerà quando, metabolizzata la morte di Mario, riprenderà in mano la pittura, concentrandosi su figure eteree di aria e di luce come quegli Angeli, dipinti su grandi tele negli ultimi anni, che la mostra inserisce giustamente a fine percorso. Una svolta creativa che in qualche modo sconcerta, perché sembra segnare una sorta di ritorno all’indietro. Al primo Novecento. Verso le atmosfere oniriche del simbolismo con quelle alate figure bianche come fantasmi che danzano nello spazio. E la bellezza levigata dell’art nouveau, con quegli sfondi colorati e vibranti che evocano le decorazioni floreali del liberty. La First Lady dell’arte povera ci mostra il suo cuore antico.