Consigli per gli acquisti
Labirinto Bolano
L'ultimo, torrentizio romanzo cileno di Roberto Bolano, poi la Roma di Camilleri e i racconti di Alessandro Genovese: tre libri da non perdere
Anni d’acciaio. Inevitabile avvertenza: chi leggerà l’ultimo e affascinante romanzo del cileno Roberto Bolano, nato nel 1953 e prematuramente scomparso nel 2003, deve farlo senza troppe interruzioni. Perché le divagazioni sono tante, il testo merita una matita per segnare frasi bellissime. Un romanzo (Notturno cileno, Adelphi, 123 pag., 15 euro) labirintico e molto lontano dai canoni banali di certa (e frequente) narrazione, soprattutto nostrana. Un esempio tra tanti: non esistono capoversi. A riprova del suo carattere torrentizio. Un uomo non più giovane si trova a dialogare, quasi in stato ipnotico, con un misterioso “giovane anziano”. Non credo di rovinare la lettura rivelando il dubbio dell’io narrante (Sebastiàn) che l’interlocutore non sia altro che il proprio specchio. In altri termini un se stesso cui riferire della propria vita. Sebastiàn si fa prete, coltiva le sue ambizioni di studioso e di poeta e incontra l’ambiguo Farewell, un barone della critica letteraria. Sebastiàn ha un doppio cognome: Urrutia e Lacroix, e come prelato Ibacache.
Labirinto di nomi che corrisponde a un’esistenza tortuosa e ricca di situazioni insolite, talvolta drammaticamente comiche. Per esempio incontra nella Parigi occupata Ernst Junger nell’aderente divisa della Wehrmarcht: dialogo culturale con contorni fin troppo ampi. Oppure, l’inventivo Bolano interrompe una conversazione tra il prete e il critico e da questi fa narrare un episodio, dai sapori buzzatiani, che si per sé varrebbe un romanzo breve. Un eccellente calzolaio calzolaio ha la fortuna di trovarsi dinanzi all’imperatore asburgico al quale propone di trasformare una zona poco distante da Vienna nella collina degli eroi, compresi quelli il cui corpo mai è stato trovato. Assenso generale. Il calzolaio si reca sul posto, e con alcuni aiutanti lavora come un dannato. Quando, a fine seconda guerra mondiale, l’armata rossa s’imbatte in questa fangaia pietrosa trova, in un antro, il cadavere del brillante calzolaio. Il nostro prete, convertitosi a una poesia “dionisiaca”, darà (su richiesta) lezioni di marxismo al dittatore Pinochet e alla sua cerchia. Poi il ritorno della democrazia, sempre tra “strade gialle e cieli azzurri” (Bolano amava e odiava il suo paese con eguale intensità: basta coprifuoco, intellettuali che possono radunarsi, convinti che “per non finire in discarica si fa letteratura”, ma anche un certo disorientamento malgrado i cileni si vantino, giustamente, d’avere uno spiccato senso del comico. Il finale ha venature malinconiche. Non a caso il romanzo termina con questa frase: “E poi si scatena la tempesta di merda”.
Chi l’ha vista. Che bella sorpresa leggere un romanzo di Andrea Camilleri non pubblicato dalla Sellerio. Sì, perché il prolifico romanziere quando “tradisce” l’editore palermitano di solito non dà il meglio di sé. Le sue opere extra-Trinacria, per dirla alla milanese, sono un po’ “tirati via”. Stavolta invece no. L’ultima sua opera (Noli me tangere, Mondadori, 170 pag., 17 euro) è una superba ricostruzione della personalità di Laura, laureata in storia dell’arte e con intenzioni di narratrice, nonché moglie del più anziano scrittore Mattia Todini (somiglia un poco a Moravia). Laura dice di volersi ritirare nella casa di campagna per ultimare il suo romanzo. È una bugia, e quindi scatta la puntigliosa indagine del commissario Maurizi di Roma. Laura lascia tracce, segno che non si è tolta la vita. Si scoprirà che il suo apparentemente tortuoso viaggio è fatto di segnali, ma soprattutto segue lo studio che fece da studentessa su una famosa tela in cui è rappresentata Maria Maddalena che avvicina la sua mano al Cristo risorto. Sia per questo, sia per la ritrosia sessuale di Laura, in seguito abbondantemente capovolta, la donna in crisi di identità vien chiamata, appunto, “noli me tangere”. Il suo è un rituale di addio. Addio non alla vita, ma a un certo modo egoistico e narcisistico modo di vivere. D’obbligo non rivelare il finale, ma posso affermare che c’entra in tutta la faccenda un ricchissimo mecenate brasiliano che ha a cuore il destino di chi vive nella foresta amazzonica.
Instabilità. Un’altra gradevolissima sorpresa proviene dall’editore Marco Monina, che dirige la Italic-Pequod di Ancona. Uno dei pochissimi a scavalcare la proverbiale ritrosia dei suoi colleghi italiani verso chi propone racconti. Eccellente è la racconta di Alessandro Genovese (trentino, del 1972), intitolata In equilibrio precario (136 pag., 15 euro). Nel racconto che dà il titolo alla raccolta, un giovane professore va a trovare la madre in ospedale. Piccoli e teneri dettagli, compresa la distrazione del professorino che si mette a fissare il braccio giallo di una gru”, oltre la finestra. Un equilibro, appunto, molto precario, uno stare accanto ai sentimenti più radicati e nello stesso tempo un riflettere su se stesso e il proprio passato. Inanella una collana di ricordi, compreso quello di Vanessa, che lui con aria da duro, in jeans e canottiera, aspettava fuori della scuola. Prima di un’altra visita alla mamma, il protagonista nuota in un lago. Ma senza gioia. Anzi con un senso di colpa parzialmente azzittito dalla riflessione secondo cui “ogni tanto bisogna anche avere il coraggio di essere egoisti, che non si può mica dire sempre di sì; altrimenti si finisce per odiarsi. Poi la madre viene dimessa. Il figlio, nella ragnatela dei ricordi-nostalgie-delusioni, confessa a se stesso di sentirsi “terribilmente ridicolo”.