Visto all’Università della Calabria
La parola Napoli
Toni e Peppe Servillo stanno girando l'Italia con uno spettacolo di poesie e canzoni dedicato alle contraddizioni di Napoli, una città/universo sospesa tra elegia e emarginazione
L’anima di Napoli viene fuori per frammenti, per scorci illuminati. Bella e violenta, misera e selvaggia, gioiosa e sporca. Tutto tenuto insieme dalla musicalità della parola, il filo sottile che intesse una trama fatta di poesia, teatro e note. Un concetto che per i simbolisti francesi dell’Ottocento si applicava unicamente al verso poetico ma che il recital La parola canta estende anche alla drammaturgia e alla letteratura, in particolare a quelle in dialetto napoletano, lingua musicale per eccellenza. Il punto di partenza, per la compagnia Teatri Uniti che ha prodotto questo spettacolo-concerto andato in scena al teatro Auditorium dell’Università della Calabria, è sempre la tradizione. Il fondamento da cui tendere verso l’innovazione e la contaminazione fra le arti sceniche.
Toni Servillo intona parole e cadenza versi e il fratello Peppe interpreta canzoni. I due si alternano sul palco, quasi fosse un agone musicale o, meglio, un gioco da bambini. Perché, insieme ai membri del Solis String Quartet, cui è affidata la parte strumentale, sono disposti a formare un quadrato, come nel tradizionale “quattro cantoni”: i Servillo e i due violini (Vincenzo Di Donna e Luigi De Maio) agli angoli e al centro viola e violoncello (Gerardo Morrone e Antonio Di Francia). Mettono in scena un emozionante e partecipato omaggio alla cultura partenopea, attraverso brani tratti dall’opera di autori classici come Eduardo De Filippo, Raffaele Viviani, Libero Bovio, fino ai contemporanei Enzo Moscato e Mimmo Borrelli, passando per le canzoni di E. A. Mario, Raffaele Cutolo e Renato Carosone. Quel che resta sono le contraddizioni, ieri come oggi. Napoli è “rin’t all’anema e tumore”, Napoli ha dato i natali a Basile ma anche a Cirino Pomicino. È quella che ispira canzoni struggenti a E. A. Mario (“te voglio bene e tu mme faje murì”), un autodidatta nato in una famiglia poverissima, un impiegato postale autore di brani di successo che non si è mai arricchito per curare la malattia della moglie.
La Napoli degli emarginati, dell’ommo sbagliato, di chi lotta per la sopravvivenza e per difendere la propria arte. Napoli nera e surreale, “terra di briganti e la sua alta chirurgia proviene diritta dai grammatologi del circolo di Copenaghen”. Napoli dei guappi innamorati e offesi, dei mariuoli che rubano per necessità, dei figli illegittimi che si guadagnano il paradiso. La Napoli del popolo che festeggia con la musica, in piazza, la fine della guerra.
La parola canta è uno spettacolo che nasce “dal bisogno di portare alla luce schegge sonore, barlumi di una età lontana dai contorni fiabeschi e primitivi, manifestazioni di energia vitale, di fisicità, figure e gesti elementari, nuclei di pensiero e di visionarietà che configurano un universo dove fascino e paura, sortilegio e smarrimento, solitudine e fusione con la natura procedono sempre all’unisono”. Con questa frase di Michele Sovente, poeta scomparso di recente “e ingiustamente dimenticato”, Toni Servillo dà il senso del suo essere sul palco, di una performance di altissimo livello.
Anche perché “esiste una dimensione musicale delle arti sceniche – spiega l’attore nel precedente incontro con gli studenti, per presentare il libro a lui dedicato, scritto dai docenti De Gaetano e Roberti – una dimensione astratta affidata al ritmo. Chi rinuncia a questo fa un teatro intellettuale che ci rompe i coglioni”. Chapeau.