Ritratto di un grande poeta
La compassione poetica
Nell'opera di Nino De Vita (appena raccolta in antologia a cura di Silvio Perrella) la geografia delle emozioni siciliane perde i suoi connotati certi e sconfina nella fantasticheria
C’è stato un tempo in cui, in Sicilia, l’apprendistato intellettuale passava dall’incontro, dal viaggio, dalla conversazione. Era un rito: un riconoscersi che fondeva geografia ed esperienza letteraria. Un tempo in cui parlare di un autore non poteva non rimandare a determinati luoghi, a una specifica dimensione culturale; entro un reticolo di mappe, di franche coordinate: fulcro di questa virtuosa trigonometria era il Leonardo Sciascia della civile Caltanissetta, della natia Racalmuto, della casa in contrada Noce; ma c’era anche la Bagheria di Ignazio Buttitta, la Palermo di Elvira ed Enzo Sellerio, la Capo d’Orlando del barone magico Lucio Piccolo e la Sant’Agata di Consolo, la Comiso di Bufalino…
Stagione che il poeta marsalese Nino De Vita (classe 1950), testimone superstite di questa civiltà della conversazione, ha voluto rievocare con umanissima malinconia, in Òmini (Mesogea, 2011); e la cui contrada-ombelico, Cutusìo, era stata definitivamente consacrata, di diritto, tra i luoghi di concreta immaginazione dell’Isola, in una paginetta de L’olivo e l’olivastro (1994) di Vincenzo Consolo, ove appunto si narra di «quel giardino di voci infantili» in cui Nino De Vita «scrive poemi in vernacolo alto, in una pura, classica lingua simile all’arabo, al greco, all’ebraico». E non stupisce l’apprezzamento di Consolo per quel fiore di poesia: in certo senso archeologica e dal lungo respiro memoriale, frutto d’una strategica attitudine a trarre in salvo, in definitiva, la possibilità stessa di nominare, di raccontare; ma in una lingua altra, materna e antagonista. Antagonismo peraltro gemello di quello consoliano, ma tutto arpeggiato in minore, tarato più sul piano dell’esistenza che su quello della Storia da riscrivere, a principiare dal basso (come fu, al contrario, per Consolo). Al punto da riuscire, una simile ricomposizione memoriale, a un tempo, autobiografica e corale.
Forse, la migliore definizione della speciale qualità della sua poesia la si può ricavare da una «impressione» che Sciascia, già ampiamente provato dalla malattia (la loro amicizia aveva avuto inizio nel ’69, in casa Sellerio), da Milano, consegnava in una lettera inedita (datata 18 giugno ‘89) indirizzata proprio al poeta di Cutusìo, nella quale, a proposito della seconda edizione di Fosse chiti (1989), parlava di una «precisione» – di luoghi, oggetti, sfaccettature – che attinge a una esemplare «imprecisione» (per cui la storia del lettore può specchiarsi in quella rammentata dal poeta). E ancor più ce ne rendiamo conto adesso che un’Antologia (1984-2014),uscita a cura di Silvio Perrella e per i tipi della messinese Mesogea, ne ha giustamente celebrato i trent’anni di attività poetica. A compendiare un esteso romanzo in versi che parte autobiografico per virare sempre più, verghianamente, come si diceva, verso il corale affresco d’un mondo cagliato in metafora di un preciso avvertimento della vita. Non è un caso che esso, tale romanzo dico, si apra con la catabasi memoriale al momento della venuta al mondo del poeta, con quell’Otto giugno millinuvicentucinquanta (8 giugno 1950), che agisce, sulla pagina, da epifanica incarnazione dell’aedo-custode, atto fondativo del personaggio-narratore – per mezzo della regressione al codice intimo delle verità più scabre – di quel singolare angolo di sommersa storia e precisa geografia (fisica e umana). Sicché «Ninùzzu» agisce da mazziere e insieme tarocco: Re di Bastoni di una realtà dove l’idillio è oramai tramontato e lo stupore non esclude il dramma.
Che il movente primo del suo poetare risieda, infine, in un moto di sofferta compassione lo ribadisce, qualora ce ne fosse ancora bisogno, l’immagine tratta dai Diari di Kafka posta come viatico, in esergo, al romanzetto in versi A ccanciu ri Maria (Mesogea, 2015), sua nuova opera, pubblicata in contemporanea all’uscita dell’Antologia: «Ora, di sera, dopo aver scritto, / aggiustato, riscritto, / fin dalle sei del mattino, / mi sono accorto che la sinistra / stringeva già da un po’ / le dita della mano / destra per compassione». Di qui, da una simile stretta nasce l’imperativo di scrivere, di mettere su carta: solo spiraglio per liberarsi dal «chiuppu ch’un si spirugghia» (il «groppo che non si scioglie»). Dall’accorato empatico motto dell’io narrante che si fa carico di rendere giustizia alla protagonista della vicenda, quando erompe (con voce ferma e adirata), quasi a liberare una giusta rabbia repressa che solo adesso trova la maniera di tuonare: «Comu / putisti abbunazzari?» («Come / hai potuto sopportare?»). Il teatro è sempre lo stesso, semplice quanto incredibile (per le sue estreme conseguenze) la storia qui restituita, davvero accaduta negli anni Quaranta nella contrada dove, da sempre, il poeta vive. Vicenda che Nino De Vita veniva raccontando, intorno agli anni Ottanta, perché ne scrivesse, all’amico Leonardo Sciascia (pur sapendo che la materia non fosse nelle corde del racalmutese). Con A ccanciu ri Maria, fuitina d’amore precipitata in paradossale beffa della vita («a vita chi mpirugghia», «la vita che inganna»), – per cui Pietro, innamorato di Maria, quando va per rapirla, nottetempo, non la trova e al posto dell’innamorata, è costretto quasi suo malgrado (per ragioni d’onore e opportunità) a rapire la sorella, Margherita, – l’ennesima effigie di destino appare risolta, in maniera ancor più scoperta, in drammatica novella antropologica, da funesto e ottuso gioco delle parti.
Nei suoi racconti in versi, infine, la capacità di accogliere e pensare uomo e natura in termini di simultanea coesistenza, è da sempre affidata alla «nudità» senza fronzoli di una parola poetica che assurge essa stessa, nel rimanere ancorato alle cose (come aveva peraltro già intuito, anni addietro, Enzo Siciliano), a condensata metafora dell’esistere.