Erminia Pellecchia
Da non perdere a Palazzo dei Diamanti

La città metafisica

Una bella mostra racconta i tre anni folgoranti di De Chirico a Ferrara, quelli dell'assurdità della guerra, del rifugio nelle forme e nella cabala. E nella nascita della Pittura Metafisica

Bella e malinconica. Appare così Ferrara in un tardo pomeriggio di gennaio, il silenzio assordante della nebbia, lo stupore lacerante, straniante, dell’essere proiettati, all’improvviso, in un non luogo, in una dimensione sospesa fuori dal tempo e dallo spazio. Effetto metafisico. Il prolungamento emotivo della visione di una delle più belle mostre realizzate in Italia in questi ultimi mesi, “De Chirico a Ferrara”, che celebra i cento anni del soggiorno dell’artista (1915-18) nella “città dalle cento meraviglie”. Allestita fino al 28 febbraio a Palazzo dei Diamanti si trasferirà, dal 18 marzo al 3 luglio, alla Stoccarda Staatsgalerie, partner di Fondazione Ferrara Arte, Gallerie d’Arte moderna e contemporanea del Comune di Ferrara, Archivio dell’Arte metafisica Milano-Berlino nella messa in scena di un viaggio affabulante tra i capolavori dell’artista, creati nei tre anni trascorsi nella capitale estense, e della loro influenza su Carlo Carrà, Giorgio Morandi, e, poco dopo, sulle avanguardie europee del dadaismo, surrealismo e nuova oggettività. In esposizione oltre settanta opere – dipinti, acquarelli, disegni, collage accompagnati da gigantografie delle fotografie di Alinari della Ferrara primo Novecento – provenienti dai importanti musei e collezioni private internazionali, che i curatori, Paolo Baldacci e Gerd Roos, hanno selezionato con sapienza per dare l’opportunità al pubblico – lo sottolineano nell’introduzione del raffinato catalogo edito da Ferrara Arte – “di vedere sotto una nuova luce il non facile periodo della pittura metafisica ferrarese, un’espressione artistica realisticamente minuziosa, ma studiata per creare disorientamento e inquietudine e tutta volta a scoperchiare la grande pazzia del mondo e delle cose”.

de chirico2Già, la grande pazzia che, scrive de Chirico, protagonista e spettatore di una guerra che considera bestiale, “esisterà  sempre e continuerà a gesticolare e a fa dei segni dietro il paravento inesorabile della materia”. È l’illogicità del mondo che denuncia con la sua pittura che diventa sempre più realista e meticolosa  nei particolari. Giorgio punta il suo microscopio sul quotidiano, ma ogni immagine, malgrado sia riconoscibilissima, è un segno slegato dal contesto, si veste di nuovi significati, evoca altre associazioni psicologiche, diventa indicazione della “terribile solitudine che ci accompagna in questa vita tenebrosa”, mette a nudo l’anatomia del dramma. Il quadro simbolo campeggia nella prima sala del percorso espositivo: Les Project de la jeune fille (I progetti della fanciulla), la scatola delle spole con la scritta evidente del negozio che le vende, i rocchetti di lana e seta distinguibili per la diversa lucentezza, la rossa torre del castello di Ferrara, un guanto maschile, richiamo erotico in un ambiente domestico, inchiodato alla parete graffiata da scritte cabalistiche a guisa di cuciture sulla pelle. È un microcosmo di oggetti, misterioso come le costellazioni che gli astronomi intravedono nei gelidi spazi siderali. Dipinto alla fine del 1915, annuncia il distacco da quella che i critici definiscono la prima e seconda metafisica: la poetica della rivelazione, il sentimento delle cose, l’enigma del tempo e il senso del presagio, elaborata a Milano e Firenze tra il maggio 1909 e il luglio 1911 sulla scia del pensiero di Nietzsche che lascerà in lui un segno indelebile; il ritorno agli archetipi, la nostalgia, l’angoscia, il delirio del filosofo tedesco che si intreccia a Carlo Alberto e alla sua vicenda personale contrassegnata dall’assenza del padre e dalla mancanza di una patria, lo sradicamento e la struggente ricerca di punti di riferimento che rinveniamo nella serie dei quadri e dei disegni del periodo parigino (luglio 1911-maggio 1915). Il primo conflitto bellico mondiale è alle porte. Giorgio, nato in Grecia – la famiglia apparteneva alla Nazione Levantina di Costantinopoli e dopo il 1815 era al servizio dei Savoia come interpreti – e formatosi a Monaco di Baviera, è alla ricerca costante della sua identità italiana.

Quando il 24 maggio del 1915 l’Italia entra in guerra, de Chirico – disertore alla chiamata alle armi e per questo esule a Parigi – approfitta del “condono” e col fratello minore Alberto (musicista passato alla scrittura col nom de plume Savinio) si arruolano nell’esercito e vengono assegnati al 27° Reggimento di fanteria di stanza a Ferrara. Il “grazie” al re sarà il curioso “I giocattoli del principe”, l’ultimo degli “enigmi sabaudi” dedicato a Carlo Alberto. Per le sue instabili condizioni fisiche viene dichiarato inabile al servizio attivo e avrà incarichi di scrivano con la possibilità di abitare in un appartamentino, al seguito l’onnipresente madre. Durante la permanenza nella cittadina di provincia dal passato glorioso, i due fratelli incrociano il proprio destino con alcune personalità di spicco dell’ambiente culturale ferrarese, come il poeta Corrado Govoni e soprattutto il giovanissimo Filippo de Pisis che li introduce nei circoli intellettuali locali e fa loro da cicerone nella “città pentagona”. A testimonianza dei legami ferraresi troviamo a palazzo dei Diamanti tre quadri di figura: un autoritratto della fine del 1918, il ritratto – non sfigurerebbe tra un Guido Reni e un Guercino – del commilitone Carlo Cirelli, “gentile mio e multisensibile amico”, e quello di Antonia Bolognesi, celata sotto il mitico nome di Alcesti, con la quale intrecciò una liason platonica. Il pittore ha superato l’iniziale smarrimento e si è rimesso al lavoro. Non ha uno studio, dipinge la sera, in camera, e le tele sono per lo più di piccolo formato. Ma lo sguardo, il palcoscenico è cambiato: scopre la cultura semitico-esoterica nel ghetto e la fonde con quella mediterranea, lo affascinano le piazze deserte, le architetture intraviste da stanze segrete, gli opifici industriali, lo folgorano gli affreschi quattro-cinquecenteschi di palazzo Schifanoia. La materia pittorica diventa più ricca, spessa, dai colori accesi con aperture su cieli verde smeraldo o blu oltremare, le “nature morte” – agglomerati di squadre, strumenti strani, tavole sagomate su cui spiccano in rilievo pezzi di dolci e pane, carte geografiche mute, frammenti di manichini senza testa, mostrine – si fanno sempre più indecifrabili. Qui inizia a chiamare la sua arte metafisica: “L’arte deve creare sensazioni sconosciute in passato, spogliarsi dal comune e dall’accettato, sopprimere completamente l’uomo quale guida o mezzo per esprimere dei simboli, delle sensazioni, dei pensieri… vedere ogni cosa, anche l’uomo, nella sua qualità di cosa”.

de chirico3Fuori dalle mura sicure di Ferrara c’è l’orrore, per dominare quella realtà oscura cerca l’”occhio” in ogni cosa per  “scovare lo spirito nascosto degli oggetti”. “L’artista – dice – attraverso la sua opera deve saper offrire una forma di riscatto: solo così l’arte diventa evangelium, una buona novella”. Il manifesto è “L’angelo ebreo”, nella tradizione biblica il messo del Signore. Nel quadro del 1916 l’annuncio ha la forma di una carta da visita con l’angolo piegato, come prevede l’etichetta se il biglietto è consegnato di persona. Vi è dipinto un enorme occhio, lo “spirito magico” che ogni cosa contiene, racchiuso da due bastoni, il serpente di Aronne e la rosa dei sacerdoti etrusco-romani. La forma piramidale rimanda al metronomo. In dialogo, nella sala, i primi accostamenti che i curatori hanno individuato con altri artisti: “L’oggetto indistruttibile di Man Ray”, un metronomo sulla cui asta graduata è incollata l’immagine di un occhio; la “Natura morta con gli occhi” di de Pisis; gli occhi volanti dell’”Histoire Naturelle” di Max Ernst; il “Metronome” di Dalì; la fotografia “Sguardo nello specchio” di Hausmann. La sequenza successiva è quella del “quadro nel quadro”, ciò che dovrebbe essere finto, cioè il quadro, sembra vero, mentre ciò che dovrebbe essere vero, ossia l’ambiente in cui il quadro si trova, è un puro enigma. Ogni certezza è destabilizzata, non c’è confine tra realtà e illusione. Sulle pareti scorrono, sorta di gioco scatola nella scatola con mescolanza di accrocchi vari,  “Il filosofo e il poeta”, in cui un manichino (Giorgio) contempla un quadro con una costellazione, simbolo della scoperta di nuovi mondi, mentre l’altro (Alberto) è intento allo studio; e la serie degli “Interni metafisici” con la veduta oleografica di un sanatorio in un paesaggio di montagna, oppure della realistica fabbrica dei fratelli Santini, o di un faro su una scogliera battuta dalle onde, o, ancora, di un torrente impetuoso in mezzo a una foresta e di un arco romano. A confronto: “Natura morta con tarocchi” di de Pisis, “Le sommet du regard” di Magritte e “Les Plaisir illuminés” di Dalì.

“A cosa serve mandare un artista in guerra. A niente. Meglio farlo dipingere”. La questione se la pone Gaetano Boschi, medico e ideatore di Villa del Seminario. E’ l’agosto del 1917. Il soldato de Chirico è affetto da spleen, lo ricovera per tre mesi nell’ospedale specializzato per le nevrosi da guerra. Qui avverrà un incontro che segnerà tutta la storia dell’arte italiana in divenire, quello con Carlo Carrà, anche lui in terapia. Nasce un meraviglioso confronto di idee, una sintonia di intenti, il pittore futurista è suggestionato dai temi e dalle iconografie dechirichiane. Nell’esposizione ferrarese, per la prima volta, potremo ammirare gran parte della produzione metafisica di Carrà. Ne “La camera incantata” l’omaggio è ai pesci di Giorgio ispirati alle storie di Tobia; “Composizione TA” con la colonnina di mercurio, le lettere, la scatola con la casa e l’arcata ricorda “Il sogno di Tobia”, il pesce salvifico, la colonnina di mercurio con l’iscrizione Aidel (invisibile); “Solitudine” del 1917 è ispirata al coevo disegno dell’amico; “Il dio ermafrodito” sviluppa la tematica della divinità androgina che coinvolgeva molto i fratelli de Chirico (Hermaphrodito è il titolo del primo libro di Savinio). Altre citazioni. I “Pesci sacri” compaiono nell’omonimo olio di de Pisis, che non aderirà mai alla metafisica, ma piuttosto la traghetta verso la nuova oggettività e il realismo magico. Vale anche per Morandi – stupenda la “Natura morta con manichino” – che, percorre la sua strada di classica essenzialità incurante del “bagno metafisico” a cui pur guarda. La rivista “Valori plastici” fa correre come il vento il pensiero di de Chirico in un’Europa che, nel dopoguerra, è intenta a costruire un ordine nuovo.

de chirico1Ma è una metafisica purificata, sull’onda del movimento dell’Esprit Nouveau. Lo cogliamo ne “La natura morta con uovo” di  Le Corbusier, ne “La Venere dei porti” di Sironi, nella “Gradiva” di Dalì. Lo avvertiamo nel Carrà de “Il figlio del costruttore” (1917-21), che distilla la lezione dechirichiana del “Ritornante” con spoglia solennità, e nell’Ernst di “Giustizia” che dà vita a un’opera politicamente polemica, traendo spunto dai dipinti di villa del Seminario. Il colpo d’occhio è a fine mostra con “I grandi manichini” di de Chirico che risentono dell’atmosfera rinascimentale di Ferrara e presentano un chiaroscuro intenso appena ammorbidito da una materia laccata e luminosa. I manichini senza volto sono rappresentati come personaggi fatti di stoffa, di latta, di legno, la testa ovoidale, bianca, spesso con segni tratteggiati che sembrano cuciture sartoriali. E’ il canto dell’artista-poeta omerico, “capace di commuovere fino alle lacrime”, come dirà Magritte. Ecco il maestoso “Trovatore”, sullo sfondo il rosso intenso delle architetture e un cielo da aurora boreale. Ecco il romantico, patetico “Ettore e Andromeda”, l’addio prima della tragica battaglia. Ecco il capolavoro assoluto, “Le muse inquietanti”, guardiane della città, governanti dei misteri dell’universo, vestali-strumenti che aiutano a dominare le atrocità del tempo di guerra. La firma, l’autografo è ne “Il grande metafisico” ambientato nella piazza ariostea, un totem di oggetti agglomerati che termina con un busto bianco di manichino volto di spalle: è l’uomo del futuro pregno di spiritualità multipla e multiforme, “dotato di chiaroveggenza che lo libera dalla fede e dal dolore”.

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