“La vita perfetta di William Sidis”
Il genio è condanna
La storia di un bambino prodigio, raccontata da Morten Brask, è bella e appassionante. Efficace l’idea dello scrittore danese, per la prima volta tradotto in Italia, di raccontarla secondo tre diverse cronologie che catturano l’attenzione del lettore
«Vorrei vivere la vita perfetta. L’unico modo per avere la vita perfetta è viverla in solitudine» dichiara William Sidis a un giornalista nel 1914. Ma già leggendo le prime pagine di questo bel romanzo di Morten Brask si ha l’impressione che il titolo sia tristemente ironico: La vita perfetta di William Sidis (Iperborea, 396 pagine, 17,50 euro).La vita del giovane Sidis è tutt’altro che perfetta. Nel secondo capitolo, appena tre pagine dopo l’inizio del libro, c’è il racconto della lezione tenuta dall’undicenne William Sidis nell’aula magna della Harvard Mathematical Society. La descrizione è curatissima, c’è un crescendo di attesa da parte del pubblico e del padre e di angoscia da parte di quello che è ancora un bambino, anche se la sua mente è già superiore a quella di tutti i presenti nell’aula, studenti e professori, e, come tale, cerca un appoggio dal padre, che invece lo tratta come un suo pari: «William cerca il suo sguardo ma Boris non se ne accorge, ride per qualche battuta del collega.[…]. Sente uno strano disagio. Ha la nausea […] Come vorrebbe che fosse tutto finito, che lui e Boris potessero andarsene da quegli odori, nel freddo e pulito mondo fuori. Non ha la minima voglia di fare quello che tutti si aspettano da lui. Non vuole farlo, non vuole. Ma sa bene cosa significa per suo padre…». Ecco dunque. Comincia a parlare e poi è come un fiume in piena. Ma il suo essere bambino è stato in qualche modo violentato, annullato, parla come un grande, come uno che è più avanti di tutti i presenti. È come se in lui ci fossero ormai due persone diverse.
Questa è la prima e più forte impressione che si ha all’inizio della lettura di questo vivo e appassionante romanzo in cui Morten Brask (nella foto), come è sottolineato nel risvolto di copertina, «ricompone i mille volti del genio e il vero volto di un uomo condannato dalle sue stesse doti a essere tagliato fuori dalla società, emarginato come tutti i diversi».Vissuto tra New York e Boston nella prima metà del ‘900, figlio di emigrati ucraini di origini ebraiche, William Sidis è stato non solo un bambino prodigio, ma una delle menti più eccelse di ogni tempo, con il quoziente intellettivo più alto mai misurato. Come può un simile talento, che avrebbe dovuto contribuire come nessun altro al progresso del sapere umano, sparire senza lasciare traccia nella storia? Il libro si apre nel 1944, l’anno della scomparsa di Sidis. Poi continua alternando i capitoli secondo tre cronologie, una che parte dall’anno della sua nascita, il 1898, una dal 1919, l’anno in cui conosce Martha, l’unica donna importante nella sua vita, e in cui per il suo impegno socialista finisce in prigione, e appunto l’ultima, dal 1944. In questo modo l’interesse del lettore è tenuto desto molto più che se il suo autore avesse fatto un racconto in successione cronologica e si capisce meglio l’atteggiamento del ragazzo e poi giovane di genio nei confronti del mondo circostante, che poi non è altro che la sua risposta all’atteggiamento di questo verso di lui.
In particolare il rapporto con la famiglia – come abbiamo già detto a proposito del capitolo secondo – è assai problematico. Un padre che, tutto sommato, tende a difenderlo ma in fondo vede in lui più che altro il monstrum, il prodigio, una madre che è il perfetto prototipo della madre ebraica yiddish – dura, padrona della casa e dei suoi abitanti. Non a caso l’unico periodo in cui la vita di William appare quasi normale, inserita nel mondo e nella società, è quel 1919 in cui egli vive lontano dalla famiglia. C’è un episodio significativo, quando Sarah, la mamma («che solo pochi anni prima abitava in una catapecchia in Russia e adesso è lì, a New York, insieme a Ida Straus e a quelle eleganti signore […] a bere il tè in quella casa meravigliosa, e tutto grazie al marito e al figlio che è così dotato») chiede al bambino di far mostra della sua incredibile memoria dicendo tutti gli orari ferroviari, e le signore presenti lo guardano come un fenomeno e ridono a tale incredibile capacità in un bambino di tre anni. Questo a lui non piace: «Non gli piace che ridano a quel modo, devono smetterla di ridere di lui, vuole farle smettere… sente che il labbro inferiore comincia a tremargli, cerca con tutte le forze di fermarlo, non vuole mettersi a piangere proprio adesso.».
Rideranno sempre di lui e gli faranno dispetti anche i compagni più grandi all’università. L’unica gioia è essere un bambino e poter ricevere i complimenti del padre, come quando, a quattro anni, impara il De bello gallico in latino per un suo compleanno: «Tutti intorno al tavolo applaudono, ma William guarda Boris. “Papà, non sei sorpreso?” grida. “Io… certo, lo sono, eccome” […] Dà al figlio un colpetto sulla testa. William si sente esplodere di gioia, è una sensazione meravigliosa, lo prende nello stomaco, gli viene da piangere dall’orgoglio». Nonostante i momenti tremendi passati, i litigi continui fra i genitori, la madre che si arrabbia persino quando lui non prende la laurea magna cum laude ma solo cum laude, è ancora all’infanzia che torna il suo pensiero quando sente la solitudine, il bisogno di sicurezza, alla fine della sua breve esistenza: «Immagina di avere tre anni, che il suo corpo sia ancora addormentato ma la coscienza vigile, immagina che tra poco si muoverà, muoverà il suo corpo di bambino, scenderà dal letto e andrà dietro la porta a origliare quel russare, il cigolio delle molle del letto, e penserà che sono lì, Sarah e Boris, e che se anche non può entrare vegliano su di lui, lo rassicurano quando fa brutti sogni».