Al Teatro Auditorium dell’ateneo di Cosenza
Il ’68 di Pasolini
Francesco Saponaro ha messo in scena, coraggiosamente, “Calderòn” con Andrea Renzi e Maria Laila Fernandez. Un pugno nello stomaco della borghesia snob e (falsamente) rivoluzionaria
Pasolini iniziò a scrivere Calderòn (e le altre cinque tragedie) in un periodo di riposo forzato, immobilizzato al letto da un’ulcera allo stomaco, e di disorientamento: in lui, il poeta e il romanziere, infatti, nella seconda metà degli anni Sessanta, avevano smarrito i destinatari e tacevano da un po’. Col Calderòn Pasolini si rivolge direttamente alla odiata borghesia, cioè al pubblico che solitamente frequentava i teatri, e lo fa con un piglio volutamente e orgogliosamente politico e polemico, riferendosi ad avvenimenti di stretta attualità in quegli anni. È innanzitutto per questo che la scelta di Francesco Saponaro di mettere in scena un testo così complesso, così legato a doppio filo col dibattito politico contemporaneo a Pasolini, appare coraggiosa, oltre che politica a sua volta. Perché se è vero che lontani appaiono i riferimenti alle rivolte studentesche, ammantate, secondo Pasolini, di finta ideologia marxista, così come anacronistica, in una realtà contemporanea frammentata e confusa come la nostra, risulta l’invettiva ossessiva contro la classe borghese (esiste ancora una classe borghese?), eterno, ancestrale, è invece il rapporto tra essere umano e potere, al centro di quest’opera in versi che si rifà alla struttura della tragedia greca antica (suddivisa in episodi e stasimi) e al mito incestuoso di Edipo.
Politica, nel senso più specifico di indirizzo e prassi culturale, è anche la collaborazione tra l’Università della Calabria e la compagnia Teatri Uniti di Napoli, diretta da Toni Servillo, che insieme hanno prodotto lo spettacolo andato in scena in prima assoluta al Teatro Auditorium dell’ateneo di Cosenza e ora in scena (fino al 21 febbraio) al Piccolo di Milano. Lo spettacolo, infatti, è frutto di un progetto di laboratorio/residenza che, a partire dall’inizio di dicembre, si è svolto all’interno degli spazi dell’Unical, coinvolgendo un gruppo di studenti.
Il Calderón, pubblicato in edizione definitiva nel 1973, è ispirato a La vida es sueño di Pedro Calderón de La Barca. I personaggi sono gli stessi del dramma spagnolo ma agiscono in un’ambientazione diversa: la Spagna franchista del 1967. La tragedia è attraversata dal senso di straniamento che si può provare nei confronti della società, rappresenta il rapporto feroce tra individuo e potere, in un costante gioco di opposizione fra realtà e sogno. Rosaura, la protagonista (che sul palco è l’intensa Maria Laila Fernandez), si sveglia per tre volte in un contesto sociale diverso (prima aristocratico, poi povero, infine piccolo-borghese), sentendosi ogni volta un corpo estraneo, rifiutando le regole imposte dal potere, scontrandosi con la realtà per poi cedere all’ordine costituito. È la sorella, l’altrettanto brava Clio Cipolletta, a riportare Rosaura “alla ragione” mentre il potere è rappresentato dal padre-marito Andrea Renzi (sul palco anche Francesco Maria Cordella e Luigi Bignone, mentre Anna Bonaiuto partecipa in video).
A fare da sfondo all’intera vicenda è il dipinto “Las Meninas” di Velázquez, un gioiellino del Seicento spagnolo caratterizzato dalla moltiplicazione dei punti di vista, in un gioco costante di campo e controcampo. Un dipinto che ha influenzato anche la costruzione dello spazio scenico (disegnato da Luca Fiorito) dello spettacolo, concepito come una sorta di ragnatela, in cui le linee s’incontrano e si scontrano. È lo stesso Saponaro a raccontare, durante un incontro con gli studenti a margine dello spettacolo, come sia stato influenzato in questa scelta dalla visione, nel museo di Barcellona, delle diverse interpretazioni che del quadro realizzò Picasso nella seconda metà del Novecento.
Il palco è dominato da una grande parete i cui elementi si scompongono e ricompongono per dare vita a nuovi volumi e ai conflitti tra i personaggi, fungendo anche da schermo per le proiezioni video. Felici le scelte del regista di utilizzare il flamenco nella rappresentazione gestuale dello scontro tra sorelle, tra sogno e realtà, e il dialetto napoletano nel dialogo ambientato nelle baracche.
Le foto sono di Laura Micciarelli