Alberto Fraccacreta
“Tragico tascabile”, moralista “à la française”

Così parlò Ceronetti

Una divertente e illuminante carrellata sui patemi di pensiero e azione che hanno intrappolato l’uomo contemporaneo. Dal “debito greco” alla necessità del Teatro, dall’uso della nostra lingua, ai pesticidi e agli smartphone

Il Filosofo ignoto ritorna con la sua «lanterna» a illustrare i baratri crudeli in cui è caduto l’uomo contemporaneo. Tragico tascabile (Adelphi, 215 pagine, 14 euro) è una gustosa carrellata dei patemi d’oggi e delle recrudescenze di pensiero, realtà, quotidianità, affrontate sotto la lente della gioiosa e catartica disperazione a marchio euripideo. Ma è anche la storia di un’identificazione tra l’autore e il Tragico, principio indefesso che troneggia nella vita normale come un grido d’improvviso. Ceronetti, abile motteggiatore e prezioso moralista à la française, desidera fustigare il vizio e lo fa con il suo consueto stile cioraniano, mordente, capace di chiuse all’acido fenico.

CRISI – Una delle tematiche peculiari del libro è chiaramente lo status quo, in cui siamo riversati, colto da una prospettiva scettico-ironica.«Fa sorridere sentir parlare di debito greco! Tutto il genere umano è debitore verso la Grecia. L’Europa per prima, naturalmente, e la Germania prima dei primi: per il suo sistema nominale, per l’inaudita energia irradiata attraverso la sua filosofia e la ricostruzione del messaggio ellenico attraverso i suoi filologi». È ridicolo prendere per buono tutto ciò che ci viene raccontato e infarcito alla meglio. Il vero filosofo, discepolo della scuola di Antistene, sa discernere l’inghippo e discettare con arguzia: «Se questa è davvero una crisi economica io sono un lupo mannaro!».

TEATRO – L’esperienza del Teatro dei Sensibili, “teatro d’appartamento” specializzato nell’uso delle marionette ideofore, è fondamentale per la visione del mondo ceronettiana. «Il teatro, oltre che inseparabile dall’esistere civile umano, è come l’amore un contatto con l’infinito. Questo, per chi lo fa, per chi in scena parla e dice… Fare arrivare allo spettatore ascoltante la forza di certe battute, procurargli vertigine, non è soltanto arte dei grandi attori: è la scoperta a volte repentina di chiunque, attore, lavori in scena, è opera del demone sonoro, che gli spagnoli hanno chiamato duende». A problemi dottrinali si associano e si intersecano problemi pratici, per nulla oziosi: «I costi del teatro variano dall’enorme al minimo, al quasi zero. Enormi sono i costi del teatro d’Opera; quasi zero i costi del teatro di strada». Il cittadino indaffarato non ha più tempo, né capacità di ascolto e il teatro è un non-luogo visitato da un numero esiguo di persone: «Quando si va allo sbaraglio, cosa bellissima, teatralissima, senza appuntamento, senza tamburo circense, non si ferma un’anima ad ascoltarti e applaudirti. La tonica uniforme del traffico urbano, le amplificazioni scellerate, i decibel da discoteca, hanno reso i timpani del tutto insensibile ai suoni moderati e carezzevoli». Strenuo difensore dell’arte drammatica, Ceronetti (nella foto in apertura, © Giorgio Sottile, ndr) ha il coraggio di affermare ciò che pochi sanno: «A lunghezza di giorni, nel sordo duello tra il Cinema e il Teatro, il teatro ha vinto».

LA GRANDE GUERRA – Nel 2014 è caduto l’anniversario della Grande Guerra. Il Filosofo ignoto tenta di tirare le somme di un evento capitale, che ha cambiato per sempre le coordinate della nostra storia. «Per una definizione di quella guerra-madre che mi soddisfi, quantunque possa suonare ingratissima, devo ricorrere necessitato a un termine teologico: è stata una guerra escatologica – da éschaton, ultimo, estremo: ma il greco classico non lo conosce, perché è fisso alla visione ciclica del Tempo. L’escatologia riferendosi al tempo lineare, col quale computiamo la storia e ragioniamo malamente in tutto, non significa che la Grande Guerra sia stata l’Ultima, al contrario. È stata la prima di una miriade di guerre piccole e grandi che culminano nella fine di ogni storia possibile. Detto secondo il cannocchiale classico, la prima delle guerre escatologiche ha svegliato Nèmesi la vendicatrice e le guerre ultime ne sono il castigo». È in primo piano ancora la mitologia greca con le sue corrispondenze naturali e le sue leggi meccaniche, caratterizzate da un’estrema precisione nel prevedere le mosse incerte del futuro.

LINGUA E CULTURA – Si parla tanto di crisi della cultura: «Nella versione italiana, significa noncuranza del potere, perdita di bellezza, capitali e sovvenzioni sbaragliati, diseducazione progressiva dei cittadini». Alla cattiva gestione delle risorse si accosta il malcostume dei forestierismi che impoveriscono la lingua. Spassosissimo è il racconto di un cataclisma ordinario, che potrebbe avere come titolo “una giornata dal barbiere”: «Oh guarda, il parrucchiere ha chiuso… Ma no, la bottega è rimasta, ma l’insegna per riconoscerla è diventata Hair Studio! Ho una speciale allergia per la parola design, oltre che per le Niagara Falls mostruose di O.K. Design è diffuso quanto il W.C., altro anglismo che per essere d’epoca di Queen Victoria si è da tempo impadronito del territorio nazionale a livello delle chiappe». Il j’accuse ceronettiano si rivolge non solo ai forestierismi, ma anche all’appiattimento della lingua nella persona di espressioni abusate, cacofonie di sorta, capitomboli linguistici: «Scrivendo sui giornali di grande diffusione, volendo difendere la lingua parlata, pesto e ripesto da imbecille spaesato su certe locuzioni correnti implacabilmente dilaganti – da recidere, da estirpare… Ma perfino i parlanti che hanno fama di aver studiato ti sbattono in faccia i loro “spesso e volentieri”, “chiamarsi fuori”, “piuttosto che” nel senso di oppure, e altro fetore alcolico di lingua al mal del miserere». Se la cultura è oggi in crisi, la ragione prima risiede forse nella mancanza di accuratezza nel preservare l’italiano dal castigo dell’ibridazione, che sottende al motivo di un chiaro dominio culturale. Ma tutto ciò avviene non senza conseguenze: «La perdita di lingua è, per quanto intendiamo come cultura, una ferita mortale».

TONI POLEMICI – Assieme a questi temi preponderanti prendono corpo considerazioni su fatti politici o sociali, a carattere eminentemente polemico, sempre giocati in un pastiche narrativo che rende piacevole la lettura e la riflesssione. «Avvolta legittimamente in una nuvola di anidride carbonica di spudoratezza, è cominciata e cessata, in Sudafrica, in novembre 2011, la conferenza (ovviamente mondiale, nessuno mancava, di quei beccamorti) sul riscaldamento del pianeta. Protocolli detti “di Kyoto” su alcune blande misure di controllo dei fiumi, ormai morti e sepolti… E i terricidi di Stato, in specie i più intraprendenti nel dipingere di faccia di morto questa Terra esausta, chissà con quanto sollievo avranno dichiarato il loro collasso di bancarottieri impuniti! La Fao, quando si riunisce, del resto non va molto più in là… Qualche “se non facciamo…” e poi tutti a cena!». L’ironia di Ceronetti è appunto tragica: il sorriso amaro di chi è governato da una situazione insostenibile, e non può liberarsi se non sfidando la prigionia asfissiante con il sarcasmo. Siamo schiavi di gente che va a cena per satollare il ventre con i nostri conti aperti. Ma ancor di più, corazzati della perfida tecnologia che ci rasserena nevroticamente, siamo e resteremo schiavi di noi stessi: «Il cellulare è una pulce che ha uno stomaco da elefante. Lo smartphone è un baratro senza fondo in cui l’Utente (l’essere, l’anima umana), una volta catturato, precipita senza fine».

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