Henry James a cento anni dalla morte
Come Agamennone
Racconta Edith Wharton che dopo l’ictus il grande narratore velò «gli occhi di fronte alla prospettiva di una distruzione senza fine». Aspettando “the distinguished thing”...
«Incipriata di neve Washington Square era al suo meglio. Il bianco aveva spolverato ogni albero e ogni cancello. Al numero 25 c’era una tendina tirata, e il fantasma di Edith Wharton che ci osservava con timida invidia. Ci guardò passare chiedendosi quando l’amore che era stata così brava a immaginare avrebbe trovato il coraggio di bussare alla sua porta». La citazione, tratta da un recente romanzo di Amor Towles, La buona società, ben si presta a introdurre un ricordo di Henry James a cento anni dalla morte. Proprio al numero 2 di Washington Square, infatti, aveva visto la luce il narratore il 15 aprile del 1843 e appunto all’amica Edith Wharton si deve il commovente ricordo degli ultimi giorni di vita dello scrittore contenuto nel quarto capitolo della sua autobiografia, A Backword Glance, dove ritroviamo il termine backword che lì ha lo stesso significato dei versi di The Tempest richiamati da Henry James nel suo incompiuto ultimo romanzo The Sense of the Past: «What seest thou else/ in the dark backward and abysme of time» («Cos’altro vedi/ nel buio passato e abisso del tempo»). Leggendo quel passo dell’autobiografia di Edith Wharton si pensa a quanto scrive Truman Capote in Ritratti e osservazioni: «Di che cosa ho più paura? Non della morte. Be’ non voglio soffrire. Ma se una sera andassi a dormire e non mi svegliassi più, be’, questo pensiero non mi turba molto. Almeno sarebbe qualcosa di diverso. Nel 1966 quasi ci ho rimesso la vita in un incidente automobilistico: sono volato a capofitto attraverso il parabrezza, e per quanto gravemente ferito è certo che quella che Henry James chiama the distinguished thing mi fosse vicina, me ne sono rimasto perfettamente cosciente a recitarmi i numeri di telefono di vari amici».
Henry James morì a Londra il 28 febbraio 1916. Otto mesi prima del fatale ictus, seguito a poca distanza di tempo da una polmonite, James aveva pranzato con il suo vecchio amico napoleonico, il conte Primoli, il principe Vittorio Napoleone con la principessa e il duca di Alba. Era stato il 2 dicembre 1915 alle 8,30, nella sua abitazione, 21 Carlyle Mansions, Cheyne Walk, Chelsea, che, mentre si stava vestendo, avendo sentito mancare la gamba, secondo quanto riferito, aveva pronunciato le celebri parole: «So here it is at last the distinguished thing». Scrive la Wharton (nella foto a destra) ricordando il periodo trascorso a partire dall’inizio della guerra e dal trasferimento in Inghilterra: «Ha lottato per due anni, poi velato gli occhi di fronte alla prospettiva di una distruzione senza fine. Era il gesto di Agamennone, coprendosi il volto col mantello davanti all’insopportabile». La sua mente vagava in luoghi e cose lontani: sedeva guardando le barche sul fiume attraverso le sue grandi finestre di Chelsea. Forse avrà ripensato al suo soggiorno fiorentino a partire dall’epoca del suo primo romanzo, Roderick Hudson, concepito e cominciato proprio a Firenze, in quella casa d’angolo tra piazza Santa Maria Novella e via della Scala dove abitava nella primavera del 1874.
È quanto ci dice lui stesso nella prefazione, scritta diversi anni dopo, rievocando la Firenze malinconica, grigia, crepuscolare, il «tenero, greve paesaggio toscano» dell’ultimo capitolo dove è la descrizione della villa Pandolfini, cioè della villa Castellani a Bellosguardo, che ritroveremo poi anche in Ritratto di Signora: «La villa Pandolfini si ergeva su un piazzaletto erboso, in cima a una collina il cui pendìo cominciava appena fuori di una delle porte di Firenze. All’esterno presentava una facciata lunga, piuttosto bassa, di un giallo scuro ed opaco…». Leggiamo nei Taccuini: «Nella squisita Bellosguardo, all’Hotel de L’Arno, in una stanza in quel profondo recesso, sul davanti, ho cominciato The Portrait of a Lady…». E ricordiamo in particolare il capitolo 22 dove è descritto quell’incontro con Gilbert Osmond che sarà decisivo per la vita di Isabel Archer: «Un’antica villa situata in cima a un colle ammantato di ulivi, fuori Porta Romana». A vederla oggi la villa Castellani, anche rispetto ai dipinti contemporanei del romanzo, come quello noto di Elizabeth Boott Duveneck, All’ombra dei cipressi di Villa Castellani, non sembra per nulla mutata: «Un rettangolo con i cipressi che si alzano verso il cielo in gruppi di tre o quattro e accanto un piccolo giardino con rose selvatiche e panchine di pietra coperte di muschio e riscaldate dal sole». In Ritratto di Signora tutto quello che viene detto di Isabel Archer è che si tratta di una giovane donna alta, carina, vestita di nero («A tall girl in a black dress who at first sight seemed pretty»). I ritratti jamesiani riescono a vivere nella mente del lettore sebbene lo scrittore non fornisca nessun elemento preciso.
Il motivo della tela vuota che può valere quanto il più celebrato Raffaello si ritrova in quello che è forse il più celebre racconto di James ambientato a Firenze, La Madonna del Futuro, che è insieme una riscrittura del Capolavoro sconosciuto di Balzac e una profezia sulla Firenze di oggi, dove il cattivo gusto del ciarpame per turisti mette in ombra gli splendori artistici della tradizione. Lì, dove la contrapposizione Del Sarto-Raffaello ritorna in quella Theobald-Raffaello, all’artista che vuole competere col capolavoro di Raffaello si contrappone la «facilità imitativa rivoltante» del suo antagonista che non solo conquista ben più del cuore della donna da lui idealizzata ma riesce per giunta anche a vendere a caro prezzo le sue statuette di gatti e scimmie fatte con un «composto plastico». Non a caso in L’età dell’oro Gore Vidal riporta la seguente conversazione: «“Certo le cose migliori sono quelle che non cominciamo mai a fare. Come La Madonna del Futuro” “Cosa?” “Un racconto di Henry James”». Non a caso a chi ha potuto recentemente ammirare quel capolavoro del kitsch che è il Pluto and Proserpina di Jeff Koons sulla piazza della Signoria accanto alle copie dei capolavori immortali del Rinascimento, la Giuditta o il David, è tornato alla mente il racconto di James richiamato peraltro anche dal grande critico Arthur Danto a proposito appunto di Jeff Koons nel suo Unnatural Wonders: Essays from the Gap between Art and Life. James per il suo racconto ha tenuto presente certo l’Andrea del Sarto che aveva ispirato l’omonima opera di Robert Browning e che ritorna, in contrapposizione col più celebrato Raffaello, dalle pagine di Roderick Hudson al celebre passo di Italian Hours.
È un volume particolarmente significativo e importante quello che descrive le «ore italiane» di Henry James e si conclude con la visita fatta il 13 giugno 1899 ad Axel Munthe nella villa San Michele di Anacapri, definita da lui «una creazione della più fantastica bellezza, poesia ed inutilità che io abbia mai visto messe insieme».Forse la sfinge di villa San Michele (il volto di sfinge che il passato assume per raggelare i presenti, secondo quanto osserva Sergio Perosa a proposito di The Aspern’s Papers)doveva ispirare le celebri pagine di The Beast in the Jungle («l’immagine di una sfinge, serena e squisita ma impenetrabile») e ritornare poi anche in The Bench of Inutility.