A proposito del "Figlio di Saul"
Antigone nel lager
Il film, terribile e (molto) interessante, di László Nemes sulla Shoah, propone una chiave di lettura inedita sull'Olocausto: il rispetto della morte, dove la vita è negata
Gli eroi omerici, si sa, non temevano la morte. Anzi essa era per loro foriera di gloria eterna, soprattutto se li coglieva giovani. Ciò che invece temevano più di ogni altra cosa era che il loro corpo, da morti, restasse in pasto ai cani e agli uccelli, privato di onoranze funebri. Per i Greci antichi, infatti, morire senza sepoltura significava condannare la propria psyché a vagare per sempre fuori dalle porte dell’Ade. Per questo, non c’era sorte peggiore da riservare al proprio nemico: lasciare il suo corpo esposto, insepolto, e preda degli animali. È, questa, l’ossessione che percorre tutta l’Iliade. Così Ettore, uccidendo Patroclo, gli rivolge queste dure parole: «Tu, sarai cibo per gli avvoltoi». E per lo stesso motivo attorno al corpo di Patroclo, conteso tra Greci e Troiani, infuria una lunga e violenta battaglia, affinché esso non diventi «zimbello delle cagne troiane». Per lo stesso motivo ancora, prima del duello finale tra Ettore e Achille, l’eroe troiano propone un patto al suo nemico: chi dei due avesse ucciso l’altro, si sarebbe dovuto impegnare a non recare offesa al suo corpo, ma a restituirlo ai propri cari. Achille rifiuta il patto sdegnato e quando Ettore cade, ferito a morte, l’ultimo pensiero del principe troiano è rivolto ancora una volta alle onoranze funebri: «Non lasciare che mi divorino i cani» supplica ad Achille, che invece vorrebbe tagliare a pezzi quel corpo e mangiarlo crudo, tanto grande è l’odio che prova. «Ti sbraneranno tutto i cani e gli uccelli», gli annuncia, trionfante. E proprio per riavere il corpo di Ettore, il re Priamo si umilia in una delle scene più toccanti e più alte del poema, quando implora in ginocchio l’assassino del figlio. Tutto, insomma, era giustificato, pur di non lasciare un corpo insepolto. È un tema, questo della «sepoltura adeguata», che ricorre anche in Sofocle, in almeno tre delle sue tragedie: l’Aiace, l’Edipo a Colono e soprattutto l’Antigone. In quest’ultima è addirittura il centro dell’opera. L’opposizione radicale tra Antigone e il re Creonte si consuma infatti tutta attorno alla decisione della figlia di Edipo di dare sepoltura al cadavere del fratello Polinice contro l’editto emanato dal nuovo sovrano di Tebe. Antigone non ha paura delle conseguenze del suo gesto, e quando viene arrestata difende orgogliosamente il suo diritto a obbedire alle leggi divine della pietà. Creonte la condanna, in un crudele contrappasso, a essere sepolta viva, macchiandosi di un doppio oltraggio, come gli rinfaccia l’indovino Tiresia alla fine della tragedia: quello di aver posto «indegnamente nel sepolcro una persona viva», tenendo allo stesso tempo «un cadavere privo degli dei inferi, senza funebri onori, nefando». Creonte, dunque, è accusato di aver compiuto un atto di hybris, perché lasciare un cadavere insepolto è un’offesa divina. Per questo gli predice sventure, e un tempo in cui domineranno «gemiti di uomini e di donne», e le città saranno sconvolte dall’odio, che lascerà un numero infinito di morti insepolte.
Proprio commentando il discorso di Tiresia, nel suo magistrale saggio Le Antigoni, George Steiner parla di una inversione della «cosmologia della vita e della morte». Creonte, cioè, scrive Steiner, «ha convertito la vita in morte vivente e la morte in sopravvivenza organica sconsacrata». Antigone è infatti condannata a «vivere da morta» sottoterra e Polinice deve restare un «morto vivente» sulla terra. Ecco, allora, che «la ruota dell’essere ha compiuto oscenamente un giro intero». Queste parole mi sono tornate in mente, insieme all’Antigone di Sofocle – la più grande opera sul «crimine contro la vita» mai scritta – guardando il film Il figlio di Saul del giovane esordiente ungherese László Nemes, ispirato liberamente alla rivolta di un Soderkommando di Auschwitz, avvenuta realmente il 7 ottobre 1944, quando un gruppo di deportati si ribellò facendo esplodere un crematorio e tentando una fuga presso un villaggio vicino, dove però fu raggiunto e sterminato dai nazisti. I Sonderkommando, composti da ebrei deportati, erano le unità speciali dei lager isolate dal resto del campo perché deputate ad accompagnare i prigionieri nelle camere a gas, aiutarli a svestirsi, trasportare i cadaveri nei forni crematori, ripulire le camere per i successivi arrivi, disperdere le ceneri dopo la cremazione. Primo Levi li definì i «corvi neri del crematorio», «i miserabili manovali della strage».
A loro è dedicato il film di Nemes (Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes 2015, Golden Globe per il miglior film straniero 2016): un film terribile, ma necessario, che ci costringe ad assumere per la prima volta il punto di vista dei sommersi, immergendoci con loro nell’incubo insensato della soluzione finale, attraverso un inesorabile piano sequenza girato con la macchina a spalla, nel claustrofobico formato 4:3, e una colonna sonora composta da un perenne contrappunto di rumori, pianti, latrati, ordini, sussurri e grida, «diverse lingue, orribili favelle». Un film sulla Shoah che rende superflui tutti gli altri, perché il suo realismo quasi insopportabile non concede nulla allo spettacolo emotivo (come in Schindler’s List di Spielberg) e tanto meno alla fiaba irreale (come ne La vita è bella di Benigni), ma punta alla rappresentazione della tragedia assoluta, nel senso in cui la intende lo stesso Steiner, ovvero come «ontologia negativa», come «modo performativo della disperazione». E lo fa lavorando per sottrazione: niente musica, niente snodi narrativi, niente scene culminanti (ad eccezione del finale, che avviene però non a caso fuori scena, in un ultimo magistrale piano sequenza): tutto sembra accadere in presa diretta, nel ripetersi ossessivo di gesti, sguardi, scarni dialoghi, nei volti lividi, nel buio delle camere a gas, nelle montagne di cadaveri nudi ammassati gli uni sugli altri, nella concentrazione nevrotica degli internati tesa a eseguire i compiti assegnati dai kapò, o al tentativo istintuale di scampare alla morte.
Seguendo il film con gli occhi di Saul Ausländer, il protagonista precipitato nell’ultimo girone dell’inferno – interpretato superbamente dal poeta Géza Röhrig, al suo esordio come attore – oppure incombendo dietro le sue spalle, non riusciamo ad avere alcuna percezione oggettiva di ciò che accade nel campo, se non quello che il protagonista vede, sente e percepisce. E questa restrizione del punto di vista è allo stesso tempo una scelta tecnica ed etica: noi spettatori non ci sentiamo più tali, con la nostra rassicurante prospettiva privilegiata, ma avvertiamo per la prima volta di essere in quel luogo, di cui sembra sfuggirci tutto, all’infuori del destino di morte da cui siamo braccati insieme al protagonista.
Ma qual è la storia che si dipana attorno a Saul, mentre tutt’attorno a lui – a noi – infuria la follia nazista? L’uomo, mentre ripuliva e sgombrava le camere a gas, ha visto soffocare a morte dai medici nazisti un ragazzino, inspiegabilmente sopravvissuto ai gas. E quando sente che il cadavere dovrà essere sottoposto all’autopsia, decide di sottrarlo all’infermeria. Da quel momento in poi ogni suo sforzo è rivolto a realizzare l’unico obiettivo di trovare un rabbino per dare degna sepoltura a quel corpo che Saul sostiene appartenga a suo figlio. Ciò che conta, naturalmente, non è se si tratti davvero di suo figlio o se sia solo il senso di colpa indotto dal Sonderkommando a farglielo ritenere tale (il film lascia volutamente la questione in sospeso), ma è l’ostinazione, la cieca volontà a portare a termine questo compito prefissato, mentre viene coinvolto, quasi suo malgrado, nella fase di preparazione della rivolta dei suoi compagni di prigionia e in seguito nella rivolta stessa. Inutile dire che l’atto di pietà, l’obbedienza alla legge divina in cui Saul ha identificato la sua stessa vita nel campo sono del tutto privi di razionalità (e tali appaiono a coloro che lo circondano), proprio perché l’uomo si trova a muoversi in un mondo che, come nell’Antigone, «ha convertito la vita in morte vivente e la morte in sopravvivenza organica sconsacrata». L’osceno giro della ruota dell’essere induce a lasciare ogni speranza laddove l’unica verità è che «i vivi sono colpevoli delle morti», come dice il Messaggero nella tragedia di Sofocle. La sepoltura è forse, in questa prospettiva, un atto di redenzione che Saul vuole compiere più per se stesso, per espiare la sua colpa di «collaborazionista» costretto, che per il figlio. «Hai tradito i vivi per i morti» gli rinfaccia l’amico Abraham, quando si accorge che sta cercando di sottrarsi alla rivolta armata per seppellire il ragazzo. Ma Saul non può sentirsi parte di quel piano, che gli risulta estraneo semplicemente perché lui rifiuta l’immanenza della Storia, così come quella del nomos, inaccettabile per la sua crudeltà. Egli è unicamente proteso a vivere il tempo assoluto della legge divina, l’unico tempo nel quale possa sentirsi giustificato, salvo scoprire che non può esistere trascendenza ad Auschwitz e che lui stesso non è che uno strumento di quella politica dei vivi che ha ucciso la vita stessa.
«Ma noi siamo già morti» dirà in un altro momento del film, riconoscendo così «l’inversione del mondo dei vivi con quello dei morti» profetizzata da Tiresia. Creonte ha assunto qui le sembianze della belva nazista. E a Saul-Antigone non resta che scegliere il suo destino di morto-in-vita. Ma nel raccontare questo destino nessun film, forse, è riuscito a rendere più concretamente la metafora del cinema come «morte al lavoro» coniata da Jean Cocteau. Qui la macchina infernale è illuminata solo dalle vampe di fuoco che inceneriscono i cadaveri e dal paradosso disperato della pietà sconfitta: come Antigone che muore per aver seppellito il fratello, anche Saul, a cui è negata perfino questa trasgressione morale, è condannato. La barbarie della Shoah rende impossibile qualsiasi salvezza, qualsiasi speranza e il film di Nemes, memore della tragedia di Sofocle e della millenaria profezia di Tiresia, non vuole offrircene giustamente nemmeno uno scampolo.
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Le citazioni sono tratte da:
Omero, Iliade, Einaudi-Gallimard, 1977 (traduzione di Guido Paduano)
Sofocle, Edipo re – Edipo a Colono – Antigone, Mondadori, 1982 (traduzione di Raffaele Cantarella)
George Steiner, Le Antigoni, Garzanti, 1984.