Marco Ferrari e Arrigo Petacco
Sparate a Garibaldi!
Un (bel) libro racconta la storia di Luigi Ferrari, il bersagliere che nel 1862 sull'Aspromonte sparò a Garibaldi. Un antieroe che vive di contraddizioni. Proprio come l'Italia
Cominciamo col dire che Garibaldi non fu ferito ad una gamba. O, meglio, nella sua lunga carriera di generale guerrigliero fu ferito dappertutto, alle cosce, al torace, alle braccia, ma la ferita per antonomasia, quella che gli rovinò il corpo e l’anima, fu al piede. Al malleolo, per l’esattezza. Avvenne in Aspromonte, il 29 agosto del 1862. Garibaldi risaliva l’Italia dalla Sicilia, come l’altra volta, con i Mille, nel 1860: voleva vendicare l’attendismo dei Savoia che avevano avuto in regalo da lui mezza Italia e che poi – a suo dire – l’avevano tradita facendone un Piemonte allargato, piuttosto che una Nazione. E quindi, nel 1862, Garibaldi ricominciò da capo. Ma stavolta i Savoia riuscirono a fare ciò che nel 1860 non erano riusciti a fare: fermarlo. Salvo che per ottenere questo risultato dovettero sparargli addosso. Tutti i testimoni dell’epoca sono concordi: quando il generale Cialdini dell’esercito regolare italiano diede ordine ai suoi di battagliare, Garibaldi disse ai garibaldini di deporre le armi per non sparare «sui fratelli». Ma altrettanto non fecero i soldati di Cialdini i quali, vincolati ai formalismi militareschi, dovevano “obbedire agli ordini”. Sennonché un bersagliere, Luigi Ferrari, invece di sparare al cuore del Generale, abbassò il fucile sperando di colpirlo solo di striscio. Così Garibaldi fu ferito al piede: la pallottola gli distrusse il malleolo: ci vollero mesi, fior di medici e l’invenzione di un particolare aggeggio chirurgico per levargliela da lì. Da allora non riuscì più a camminare correttamente e, vinto anche dall’artrosi, il generale guerrigliero dovette vivere fino alla morte, vent’anni dopo, su una specie di divanetto a rotelle che per lui aveva inventato un mobiliere inglese. Non andò meglio a Luigi Ferrari, che sempre in Aspromonte venne colpito, pan per focaccia, al piede sinistro da un garibaldino. Salvo che, poche ore dopo, in quattro e quattr’otto, a lui il piede gli venne amputato.
Ebbene, al fuciliere dell’Aspromonte Arrigo Petacco e Marco Ferrari hanno dedicato un libro affettuoso: Ho sparato a Garibaldi, Mondadori, 193 pagine, 19 euro. Un libro, diciamo subito, conciliante: e non avrebbe potuto essere diversamente giacché gli autori, tra loro parenti, sono entrambi discendenti di quel Luigi Ferrari in questione. Sicché ne hanno fatto un eroe della paura. Anzi, un antieroe involontario. Cercando di eludere (ma poi nei fatti prendendola di petto) la domanda delle domande: perché costui premette il grilletto, quel giorno, sull’Aspromonte? Perché non sparò in aria pur di non colpire il (suo) mito del Generale? La prima spiegazione degli autori, s’è detto, è quella ufficiale nonché la più plausibile: obbligo di eseguire gli ordini. Del resto Cialdini – vero responsabile del ferimento di Garibaldi e di molte altre sgrammaticature della storia italiana – era un militare modesto e rancoroso: aveva diramato diktat perentori; guai a non rispettarli. Aveva promesso di passare per le armi chiunque si fosse tirato indietro dalla battaglia contro i fratelli. Ma, in realtà, dicono Ferrari e Petacco, nel segreto di Luigi Ferrari c’è qualcosa di più.
Compiuto il suo dovere (per il quale fu amplissimamente ricompensato con una medaglia d’oro, una bella pensione e l’incarico di sindaco del paese natale, Castelnuovo Magra, nello spezzino), costui nascose sempre con vergogna lo sparo sull’Aspromonte (al quale, per altro, nessuno aveva assistito). Solo quando un amico d’infanzia (l’unico con il quale si fosse confessato) divulgò la notizia dopo tanti anni, il Ferrari dovette iniziare a fare i conti con la paura. Perché la storia nel frattempo s’era incaricata di dar ragione a Garibaldi e ai suoi timori sull’incompiutezza dell’Italia. E quindi l’essere stato il feritore dell’Eroe divenne un bel problema (per la propria coscienza, oltre che per la propria incolumità).
Marco Ferrari e Arrigo Petacco (uno grande narratore d’affabulazione, l’altro popolare divulgatore storico) trattano questa ardua materia con leggerezza, entrando nell’angoscia di questo bersagliere ligio alle leggi che si trova d’un colpo a dover mettere in dubbio la sua stessa fedeltà alle norme e alle forme. Ed è così che egli tentenna, va in cerca del perdono di Garibaldi, insegue (e alla fine trova) sotterfugi pubblici che ne possano lenire la “colpa”. Un prototipo perfetto di questa nostra Italia fatta più di contraddizioni che di percorsi lineari. Insomma, questo è un libro sulla storia degli altri, ossia visto non con gli occhi di chi ha cavalcato il mito, ma con quelli di chi ne è stato travolto. Sia pure con una medaglia d’oro in petto.