Fa male lo sport
Regime Real
Il Real Madrid è nell'occhio del ciclone, malgrado un bilancio (economico) strepitoso. Storia di una squadra diventata simbolo nel bene e nel male. Per colpa del franchismo, soprattutto nel male
Tra le poche cose che Zinedine Zidane ha detto arrivando al Real Madrid, dopo la cacciata di Rafa Benitez, una va sottolineata, anche se può sembrare scontata: «Il Real Madrid deve vincere e giocare bene: è un obbligo. Giocherò in maniera offensiva come è nella storia del Real. Voglio che la gente goda ogni volta che andiamo in campo». I galacticos devono dare spettacolo e divertire, giocare all’attacco, conquistare ogni cosa. E’ stato sempre così, è nel Dna dei blancos: 32 scudetti, 10 Champions, 19 coppe di Spagna, 2 Coppe Uefa, 3 Coppe Intercontinentali, 1 Mondiale club.
Quando Jorge Valdano scrisse nel Sogno di Futbolandia: «Quel fondo di fascismo che si annida dietro la filosofia del risultato, è tipico di gente che divide il mondo in dominatori e dominati, in ricchi e poveri, in bianchi e neri, in vincitori e vinti. Mi ripugna un simile messaggio e per contrastarlo mi sforzo di lottare. Anche quando alla mia squadra va tutto male e mi tocca perdere», uno si chiedeva come questa ambiguità ideologica dell’argentino potesse coabitare con le manie di grandezza madridiste. Infatti Valdano ad un certo punto fece le valigie. E non solo perché era arrivato Josè Mourinho a dirigere le operazioni sul campo.
Tuttavia il Real Madrid non è soltanto passato e storia, rivalità con il Barcellona, trofei e titoli, oppure una interpretazione della hispanidad. È anche uno spaventoso presente di dominio e di profitti. Nell’ultima stagione, quella 2014-2015, la società di Florentino Perez, imprenditore miliardario che ha governato in due tranche per 13 anni i blancos, ha fatto segnare un risultato netto di +42 milioni di euro. E di +117 milioni di euro se si mettono in fila gli ultimi tre anni. Anche per questo il Real si può permettere di pagare (con il Barcellona) i migliori calciatori del mondo a cominciare da Cristiano Ronaldo: 289 milioni di stipendi, cioè il 50 per cento del fatturato. Non va dimenticato, però, che Real e Barcellona hanno ricevuto aiuti e trattamenti di favore dalle banche spagnole, molto ma molto dubbi, quando erano non poco indebitati.
In principio il Real non era nemmeno Real. Fu Alfonso XIII di Spagna – il nonno di Juan Carlos, il re che aveva accettato la dittatura di Primo de Rivera e che venne deposto quando fu proclamata la Repubblica – che cosparse di titoli e di corone alcune squadre di calcio agli inizi degli Anni Venti: il Betis di Siviglia, i baschi della Sociedad di San Sebastian, il Madrid Club de Futbol.
Il marchio dei Borboni e le simpatie di Franco, hanno fatto del Real la squadra del centralismo e del potere madrileno. Almeno nel passato. Certamente questi “appoggi” hanno alimentato la rivalità con il Barcellona. Che si rinnova di stagione in stagione – certo non solo sui prati verdi del calcio – e che ha il suo apice nel Clasico, lo scontro tra le due squadre, un kolossal. Il Real Madrid di destra, il Barcellona di sinistra. La Castiglia e la Catalogna. Intellettuali schierati da una parte e dall’altra, perché gli spagnoli e quelli dell’America latina non hanno vergogna a scrivere di calcio e a fare il tifo (significativo che il club della capitale abbia affidato a Mario Vargas Llosa una cattedra nella Escuela Universitaria Real Madrid).
Manuel Vazquez Montalban sosteneva che il Barça rappresenta «l’esercito simbolico e disarmato della Catalogna». In Rete si può leggere un’intervista del 1997 di Alessandro Gori allo scrittore catalano morto nel 2003 (sul sito Futbologia. Il pallone al cubo). Una chiacchierata che spiega molte cose di questa rivalità: a Barcellona «… esiste un valore aggiunto che è insolito: il club per una serie di circostanze storiche irripetibili diventa un simbolo politico, già prima di Franco, con la dittatura di Primo de Rivera. Durante la seconda Repubblica, poi, le uniche due squadre spagnole che si impegnano in una tournée mondiale per raccogliere fondi in solidarietà con la Repubblica sono il Bilbao e il Barça e molti dei giocatori rimangono in esilio. Pertanto esistono elementi che rendono obbligatoria una lettura diversa di ciò che significava il calcio, e non solo spiegandolo con panem et circenses, o pan y toros, nella variante spagnola». E ancora, a proposito del Madrid squadra franchista negli anni Cinquanta e Sessanta: «Si sa che una vittoria del Real Madrid significava quella dello stato spagnolo, di Franco. Mentre se vinceva il Barcellona vinceva la diversità. Allora era molto chiaro: il franchismo giocava ad identificarsi con il Madrid, perché andava bene al franchismo, e non al club della capitale. In un’epoca di isolamento politico, ipocrita perché di nascosto si aiutava Franco in quanto sentinella del Sud contro il comunismo ma ufficialmente non si trattava con lui, il Real Madrid si converte in un ambasciatore simbolico della dittatura. Nell’epica spagnola di fronte al mondo quella squadra, vincitrice delle prime cinque Coppe dei Campioni, arriva come per un regalo per il regime».
Fu questo, il Real che si prese dal 1956 al 1960 le “nonne” della Champions: la squadra della leggenda, quella dei Di Stefano, dei Rial, dei Gento, dei Puskas, dei Kopa, dei Santamaria. Era il Real del presidentissimo, il falangista Santiago Bernabeu. Più che proteggerla, Franco la adottò. Glielo fa dire bene lo stesso Montalban nel romanzo Io, Franco, quando lo scrittore, calatosi nei panni del dittatore, così si esprime: «I buoni risultati della nazionale spagnola erano i buoni risultati della Spagna come organismo internazionale e pertanto del suo regime. La razza si esprimeva attraverso gli eserciti e, in loro assenza, attraverso i calciatori. Per questo apprezzai in seguito i successi europei del Real Madrid, squadra che diventò la reincarnazione dei nostri eserciti nelle Fiandre arrivando a compiere la missione storica di vincere diverse coppe di Europa e a essere il miglior ambasciatore dei successi del nostro regime. Ricordo…attaccanti emblematici tra i quali c’erano giocatori di razza ispanica come Di Stefano e Rial, un rappresentante dell’ Europa che ci rifiutava, Kopa, e un fuggiasco dal terrore rosso, Puskas…».
«El Barça es més que un club» amano dire ancora oggi quelli che tengono per la squadra blaugrana di Messi & Co. E l’altroieri sfottevano i tifosi del Real come «animaletti domestici di Franco». In realtà, il dittatore nei primi anni si disinteressò alle sorti del calcio. Anzi, sostengono con argomenti i madridisti, le sue simpatie andavano all’altra squadra della capitale, l’Atletico Madrid, che era il frutto della fusione tra l’Athletic de Madrid e l’Atlético Aviacion, la squadra dell’Aeronautica militare. E rinfacciavano ai catalani di dimenticare come il Generalissimo avesse favorito l’approdo di Laszlo Kubala, un altro transfuga ungherese come Puskas, al Barcellona. E quelli, da Barcellona, ribattevano che il regime aveva sottratto loro Di Stefano che doveva essere tesserato in prima battuta per il Barça. E ancora che il Caudillo aveva ordinato ai suoi di fucilare nel 1936 uno dei presidenti del club catalano, Josep Sunyol, deputato alle Cortes per la Sinistra repubblicana. Né hanno del tutto cancellato dalla memoria storica quel sopruso, la partita di una remuntada clamorosa. Sporca, probabilmente. 1943, semifinale della Coppa del Generalissimo (allora non poteva chiamarsi Coppa del Re). Andata Barcellona-Real 3-0. Ritorno Real-Barcellona 11-1. Negli spogliatoi dei catalani, pare che arrivassero messaggi e personaggi del regime: «Voi oggi dovete perdere» era l’invito perentorio.
Un ping pong di accuse che oggi si è spostato su altri terreni e con altri protagonisti fuori e dentro gli stadi. Ma che alimenta ancora il mito del Real Madrid.
Sarà il tempo a dirci se Zidane riuscirà a ridare bellezza di gioco e trofei in vetrina ad uno dei club più famosi al mondo. Essendo timido e di poche parole, di certo non correrà il rischio di venire etichettato pesantemente come Mourinho, estroverso e linguacciuto, da un altro scrittore. Perché nel maggio del 2011, al tecnico portoghese, arrivato sulla panchina del Real dopo i trionfi con l’Inter, aprendo il Pais Semanal toccò leggere questo commento: «Florentino Perez sarà una lince nei suoi affari però sta dimostrando di essere un uomo poco intelligente per essersi consegnato ad uno sciamano da sagra come Mourinho, una persona ancora meno intelligente di lui. Un individuo che non sa di calcio e che tratta il Madrid senza attenzione, che non ha remore nel tradire la sua centenaria tradizione né nello sporcarlo con una macchia che sarà difficile cancellare. Il suo Madrid è una squadra con buoni giocatori ai quali chiede di giocare in maniera brutta e cattiva; con attaccanti eccellenti a cui, nelle partite chiave, non permette di attaccare; con giocatori d’onore – la maggioranza – che obbliga a comportarsi in maniera brutale e disonesta; giocatori che, grazie al suo noto e infinito risentimento e al suo potere quasi assoluto, schiaccia sotto un regime di terrore». Firmato Javier Marias. Hala Madrid y nunca mas.