Due pensieri: coincidenze e diversità
Quel colloquio tra Sciascia e Pasolini
Da “Il fiore della poesia romanesca” a “Todo modo”, fino alla figura di Aldo Moro e al cristianesimo. Riflessioni sulle correlazioni tra lo scrittore siciliano e l’autore degli “Scritti corsari”
Presso il Fondo Falqui della Biblioteca Nazionale è conservata una copia dell’antologia Il fiore della poesia romanesca con dedica autografa di Mario dell’Arco. Due anni prima, nel 1950, lo stesso Mario dell’Arco si era occupato della pubblicazione delle Favole della dittatura presso l’editore Bardi. L’antologia di Sciascia ha una premessa di Pier Paolo Pasolini, che aveva già recensito Le favole della dittatura in «La libertà d’Italia» del 9 marzo 1950 col titolo Dittatura come favola. Pasolini poco prima di morire avrebbe scritto una recensione di Todo modo dove è sottolineata la speciale condizione di un intellettuale come Sciascia la cui autorità «è soltanto personale: è cioè legata a quel qualcosa di debole e fragile che è un uomo solo». L’affaire Moro è dall’inizio alla fine un ideale colloquio con Pasolini. Non a caso la vicenda non solo si apre, come è stato sottolineato, ma anche si chiude nel nome di Pasolini, evocato attraverso le pagine degli Scritti corsari, di Empirismo eretico, delle Lettere luterane, sul filo di quella «enigmatica correlazione» che legava Moro, «il meno implicato di tutti», alle «cose orribili che sono state organizzate dal ’69 a oggi», di quella «enigmatica correlazione» che egli non sciolse mai di fronte ai cittadini della Repubblica italiana. Da una parte c’è la coerenza di Pasolini che voleva processare il “Palazzo”, e dall’altra quella di Moro, che quel processo aveva sempre rifiutato, dichiarando per sé e per la Democrazia Cristiana: «Noi non ci faremo processare».
Ecco dunque il punto da cui per Sciascia bisogna partire per conoscere la verità sul caso Moro: «Ma la sua più vera coerenza bisogna intravederla nel non aver risposto al processo, nell’averlo respinto: per sé e per la Democrazia Cristiana – così come nel Parlamento della Repubblica l’aveva qualche mese prima respinto per l’onorevole Gui in quanto democristiano in cui l’intera Democrazia Cristiana si riconosceva e intorno al quale faceva quadrato». Contro il Moro «uno e due» che si volle accreditare presso l’opinione pubblica nei giorni del rapimento, Sciascia propone una lettura “candida” delle lettere dal carcere, di quel candore di cui parla Bontempelli a proposito di Pirandello e che per Sciascia è sinonimo di cristianesimo. Come intendere altrimenti il richiamo forte che Moro fa all’anima di quella Democrazia Cristiana che resta «fondamento insostituibile» e in cui il caso Moro diventerà «un punto irriducibile di contestazione e di alternativa» proprio nel momento in cui da quel partito che continua a dire ancora suo si sente condannato a morte («Muoio, se così deciderà il mio partito…»)? Soprattutto significativa è, nelle pagine iniziali, l’immagine di Moro che si aggira solo «in quelle stanze vuote, in quelle stanze già sgomberate. Già sgomberate per occuparne altre ritenute più sicure: in un nuovo e più vasto Palazzo», quella immagine che rimanda alla lucida denuncia di quella che nelle Lettere luterane Pasolini definisce«la nuova reale “anima” – se Moro permette – della Democrazia Cristiana, che non è più un partito clericale perché la Chiesa non c’è più», di quella meccanica delle decisioni politiche del Palazzo che, come impazzita, «obbedisce a regole la cui “anima” (Moro) è morta».
La significativa esclusione di tutti quei passi delle lettere di Moro, in particolare dell’ultima, dove ci si richiama alla trascendenza, indica bene la distanza tra l’orizzonte di Sciascia e quello di Moro. Dietro il Moro di Sciascia, che mostra di avere «una conoscenza tutta in negativo, in negatività della natura umana», è facile riconoscere la fisionomia del romanziere siciliano, la sua concezione del negativo che è sconfitta della ragione e non, come per il cristiano, momento della verità. Eppure nessuno come Sciascia, che sente il negativo religioso, può indicare meglio la radice teologico-negativa che consente di accostare Pasolini e Moro per via del comune riferimento al cristianesimo. Infatti se per Sciascia Moro è «la persona più adatta a nascondere, pirandellianamente, tra le parole le cose», è anche la persona più adatta a testimoniare pirandellianamente «quanto drammatico e traumatico possa essere l’impatto di chi autenticamente sente e intende il cristianesimo nella sua essenza evangelica (a parte la trascendenza e la dottrina che la regge) con una realtà che di fatto visceralmente lo stravolge, lo nega». È questo per il romanziere siciliano il punto di contatto tra il cristianesimo di Moro e quello di Pasolini.
Scriveva di Moro all’indomani del rapimento: «Mi è insopportabile la sua lentezza, il suo dire polivalente ed ermetico: e mi pare si comunichino a tutta la vita di questo paese. Ma basta, ad accendermi una certa simpatia, il sentire che non è un cattolico-ateo, in questo paese di cattolici-atei (di un ateismo, voglio dire, inconsapevole ma attivo)». Scriveva di Pasolini a proposito del rispetto che si doveva alla sua posizione, in occasione della polemica sulla legalizzazione dell’aborto che li vedeva contrapposti, che «Pasolini è uomo religioso» e che «la sua religiosità è religione, religione cattolica». E aggiungeva: «In un paese cattolico la cosa non dovrebbe suscitare né meraviglia né sospetto né dileggio a meno che non si ritenga meraviglioso, sospetto e da dileggiare il fatto che tra milioni di cattolici nominali ce ne sia uno effettivo». Quel giudizio sul cristianesimo di Pasolini Sciascia ribadiva in occasione della sua morte, «una morte in cui gli elementi libertari sono sovrastati e annichiliti dagli elementi cattolici», come è detto in un articolo intitolato significativamente Dio dietro Sade, che è testimonianza del suo «cristiano amore per lui», «un amore che forse sfiora il concetto – cristiano e cattolico – della reversibilità».
Viene da pensare a un particolare biografico che quasi certamente Sciascia non conosceva. Il primo uomo politico, e per molte ore il solo, a mandare un telegramma alla mamma di Pasolini la mattina del 2 novembre 1975, fu Aldo Moro. E, in proposito, vien fatto di richiamare un romanzo di Alessandro Banda, Come imparare ad essere niente, dove il fantasma di Moro dialoga con quello di Pasolini. Ricordo una recensione a Morte dell’inquisitore di Sciascia apparsa su «La Stampa» del 18 marzo 1964 a firma di Carlo Casalegno. A due giorni dall’attentato in seguito a cui trovò la morte il coraggioso giornalista, venerdì 18 novembre, nel discorso di Benevento, Aldo Moro dirà: «Vediamo ora, da angoli oscuri del nostro Paese, emergere questa fredda contestazione del principio della libertà, come se dall’insidia alla libertà, dall’insidia al consenso potesse venire qualche cosa di meglio, o qualche cosa di più umano, di quello che abbiamo, nella libertà e nel consenso, costruito nel corso di questi trenta anni». Quando Casalegno fu ucciso, Pasolini era morto ormai da due anni. Contro Casalegno Pasolini aveva scritto cose tremende. Non ci sentiamo in colpa se, a quarant’anni dalla sua morte, ricordiamo l’attacco di inaudita ferocia di quell’uomo mite e solo. E certo in questo ci conforta quanto lo stesso Pasolini scriveva in «Il Giorno» del 31 gennaio 1973: «È più giusto, più buono un mondo repressivo di un mondo tollerante; perché nella repressione si vivono le grandi tragedie, nascono la santità e l’eroismo. Nella tolleranza si definiscono le diversità, si analizzano e isolano le anomalie, si creano i ghetti. Io preferirei essere condannato ingiustamente che essere tollerato».
Niente di più lontano da quanto Pasolini avrebbe desiderato di certa agiografia che tende a esorcizzare la sua figura fondamentalmente provocatoria di uomo e di artista. Si può, come diceva Sciascia, essere nei suoi confronti «fraterni e lontani», «di una fraternità senza confidenza», si possono avere pregiudizi sull’omosessualità anche se non al punto di non stare «dalla parte di Gide contro Claudel, dalla parte di Pasolini contro i corrotti, gli ipocriti e i cretini che gliene fanno accusa», si può non essere d’accordo con lui su molte altre cose, ma si deve comunque riconoscere che «in quello che Pasolini va dicendo ci sarà magari incertezza, confusione, contraddizione ma c’è anche verità».