Fabrizio Coscia
Letture vagabonde

Ode al cane di Čechov

Lettura (ad alta voce) del racconto “La signora con il cagnolino” di Čechov, uno scrittore che ci fa toccare la vita, ma non ce la spiega, né la definisce

Come Franz Kafka, che sognava spesso di leggere da un podio, davanti a una platea, tutta L’educazione sentimentale di Flaubert, dalla prima all’ultima pagina, senza interruzioni, anche io ho un sogno ricorrente: quello di leggere in pubblico, per intero, la Signora col cagnolino, del mio amatissimo Čechov (perché ci sono scrittori che si ammirano e scrittori che si amano, e perfino scrittori che si odiano, e Čechov è uno di quelli che si ama come un fratello maggiore, uno di quelli che conosce tutto di noi, le nostre piccole miserie e debolezze, le nostre frustrazioni e speranze deluse, e non ci giudica mai, perché la sua anima è così grande da comprendere tutto ciò che è proprio dell’essere umano).

Il finale di questo racconto, in particolare, lasciò sbalordita Virginia Woolf, la quale si chiedeva quale coraggio e quale audacia – lei, scrittrice coraggiosa e audace come pochi – potessero mai spingere un autore a terminare un racconto in quel modo, così bruscamente, senza spiegazioni, senza scioglimento, con un punto interrogativo. È quello che oggi chiameremmo un «finale aperto», e che non smette di lasciarci sbalorditi, nonostante la nostra abitudine a questa soluzione narrativa, sempre più diffusa in seguito, al punto da diventare quasi un espediente di moda (quello che gli inglesi chiamano cliffhanger, che vuol dire letteralmente: «appeso a un precipizio», abusatissimo soprattutto nelle fiction tv seriali o nei film d’azione, ma anche in tanta letteratura minimalista americana). Perché allora questo finale continua a sorprenderci? Forse perché Čechov non ne fa solo una questione di tecnica, ma mette in gioco qualcosa di molto più complesso, che ha a che fare con la vita e le sue irresolutezze? Difficile rispondere. In ogni caso, è questo racconto che sogno di leggere a voce alta, davanti a un pubblico.

anton cechov1E dunque, leggerei di Gurov, l’uomo che aveva fatto tante conquiste nella sua vita, ma che non aveva mai amato realmente. Mai, prima di incontrare Anna Sergeevna, la signora col cagnolino, conosciuta per caso a Jalta, durante una villeggiatura. Entrambi sposati, il loro rapporto sembrava destinato a finire con la fine della vacanza, come un’avventura non diversa da tante altre, e ad essere presto dimenticato, ma invece, tornati ciascuno alla propria famiglia e alla propria città (lui a Mosca, lei nei pressi di Pietroburgo), i due scopriranno il potere irresistibile che può avere l’evocazione di un’assenza, scopriranno di non poter più fare a meno l’uno dell’altra. Gurov è oppresso dal dolore e dalla nostalgia, e non fa che pensare ossessivamente alla sua signora col cagnolino. Così un giorno si reca nella città di provincia dove lei vive, aspetta con ansia e invano fuori la sua casa e infine la incontra tra la folla in un teatro d’opera. Da allora i due amanti cominceranno a vedersi una volta ogni due o tre mesi a Mosca, quando Anna riesce ad allontanarsi con qualche scusa da casa. Gurov sa, sente, che la sua doppia vita poggia su un paradosso: quella visibile a tutti è rivestita di un involucro di menzogna e convenzioni, mentre quella segreta, ignorata dagli altri, concentra tutto ciò che c’è per lui di importante, di indispensabile, di vero. L’amore è arrivato, per la prima volta nella sua vita, e gli ha rivelato che «l’esistenza privata di ognuno si regge sul segreto», e che questo segreto è il cuore stesso della vita.

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Anche la vita di Anton Čechov si reggeva sul segreto. Il segreto dell’uomo, prima ancora che della sua arte. A differenza dell’altro famoso medico della letteratura, il folle e orribile dottor Destouches, in arte Céline, che invitava al massacro di tutti gli ebrei del mondo – compresi le donne e i bambini – Čechov è stato il più umano degli scrittori: amabile, generoso, gentile, altruista. Maksim Gor’kij disse che quando si era in sua presenza si provava un desiderio inconscio di essere migliori: più semplici, più sinceri, più buoni. In genere questa è una prerogativa dei santi. E forse un po’ santo Čechov lo è stato davvero. Eppure nessuno tra coloro che gli erano più vicini seppe mai ciò che succedeva nelle profondità della sua anima. Sapeva leggere nel cuore degli esseri umani, ma era un uomo solo, nonostante fosse circondato dalla sua numerosa famiglia, da amici e lettori, nonostante fosse amato dalle donne e non disdegnasse i piaceri della vita. Quando scrisseLa signora col cagnolino, nell’autunno del 1899, si era appena trasferito con la madre nella sua nuova villa alla periferia di Jalta, e versava in gravi condizioni di salute. Nel personaggio di Gurov c’era molto di se stesso: soprattutto quella stanchezza per le amanti occasionali che, come confessava agli amici, non gli piacevano più, così come la scoperta tardiva del vero amore, che aveva incontrato nello sguardo volitivo di una ragazza intelligente e piena di talento, l’attrice Olga Knipper, conosciuta l’anno prima, il 9 settembre 1898, assistendo alle prove del Gabbiano.

«Neanche una di loro era stata felice con lui – scrive Čechov, riferendosi alle donne che aveva conosciuto il protagonista del suo racconto – Il tempo passava, incontrava, si univa, si separava, ma neppure una volta aveva amato; c’era stato tutto quello che volete, fuorché l’amore. E solo adesso che aveva i capelli bianchi amava come si deve, autenticamente, per la prima volta in vita sua». Per la prima volta nella sua vita, anche il dottor Čechov, malato e solo, si sentì intimamente legato a una donna. Olga Knipper gli fu presentata qualche sera dopo la prova del Gabbiano. Čechov rimase molto colpito dalla sua bravura, sentendo per tutto il tempo della prova un nodo alla gola per l’emozione. Si sposarono tre anni dopo, a Mosca, l’11 maggio 1901, ma nei successivi tre anni di matrimonio, interrotti dalla morte di Čechov, i due sposi trascorsero insieme solo brevi periodi (sempre felicissimi), continuando a vivere per la maggior parte del tempo separati, lui a Jalta, per i  suoi problemi di salute, lei a Mosca, per i suoi impegni di teatro.

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Come il comico americano Andy Kaufaman, che una volta di fronte a un pubblico  di studenti universitari stupefatti, decise di declamare per intero Il Grande Gatsby, anche io leggerei, dunque, La signora col cagnolino, fino al famoso finale, a quella conclusione che non conclude, quell’improvviso calo del sipario su una vicenda di cui sembra sfuggirci tutto, come se l’autore avesse eliminato qualche particolare di fondamentale importanza, o ci costringesse ad ascoltare una melodia interrotta senza gli accordi che ci saremmo aspettati alla fine. Durante uno dei loro incontri clandestini a Mosca, dunque Gurov e Anna sentono di amarsi «come persone affini, care come marito e moglie, come teneri amici».

L’arte di Čechov non è mai stata così evasiva come in questo momento, dove lo scrittore ci fa toccare la vita, ma non ce la spiega, né la definisce. E del resto, cosa dovrebbe spiegare? «Pareva loro che il destino li avesse creati l’uno per l’altra; e non si capiva perché lui fosse ammogliato e lei maritata; ed erano come due uccelli migratori, maschio e femmina, catturati e costretti a vivere in due gabbie separate. Si perdonavano a vicenda ciò di cui si vergognavano nel loro passato, si perdonavano tutto nel presente e sentivano che quell’amore li aveva mutati entrambi». Ecco, allora, che i due amanti si mettono a nudo l’uno di fronte all’altra, ma anche ciascuno di fronte a se stesso. La chiave dell’arte di Čechov consiste, in queste pagine, nello sguardo dello scrittore, che si pone dalla parte del lettore, piuttosto che sopra o dietro i suoi personaggi, e osserva quel che accade come se fosse davanti a un palcoscenico, spettatore tra il pubblico anche lui. È come se lui ne sapesse esattamente quanto noi su ciò che sta accadendo, cioè nulla. Imperscrutabili i destini, le motivazioni, le scelte. Tutto si dispiega davanti a noi, esattamente come accade nella vita. «Poi si consultarono a lungo, parlarono di come evitare la necessità di nascondersi, d’ingannare, di vivere in città diverse, di non vedersi per tanto tempo. Come liberarsi di quelle insopportabili catene? “Come? Come?” domandava lui, afferrandosi il capo con le mani. “Come?” E sembrava che, ancora un poco, e la soluzione si sarebbe trovata, e allora sarebbe iniziata una vita nuova, meravigliosa; e a entrambi era chiaro che mancava molto, molto tempo alla fine, e che la parte più complessa e difficile stava solo iniziando».

Su questa frase si chiude il racconto, aprendo nuovi, possibili ma imprevedibili sviluppi. L’eco della domanda finale di Gurov continua a risuonare ancora oggi. Ha attraversato più di un secolo per raggiungerci, più viva che mai. Come fare?… Come?… Čechov non ha una risposta, o se ce l’ha non ha nessuna intenzione di rivelarcela. Nemmeno ci dice se i due amanti riusciranno mai a trovare la «soluzione» per iniziare finalmente la loro «vita nuova, meravigliosa». Il suo racconto termina così, lasciandoci in sospeso, come in sospeso ci lascia sempre la vita, «con tutte quelle insopportabili catene», incompiuta, irrisolta.

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Olga KnipperPer molti anni dopo la morte di Čechov, nel suo diario Olga Knipper (nella foto) continuò a scrivere lettere al marito, in una ostinata, imperterrita negazione della realtà. «E mentre ti scrivo – si legge in una di queste – sento che sei vivo, da qualche parte, mentre aspetti la mia lettera». Anche per lei, evidentemente, quell’estate del 1904, «la parte più complessa e difficile stava solo iniziando». Quelle parole Čechov le aveva scritte durante la prima estate del loro innamoramento, quando si incontravano di notte, nella camera da letto della bianca casa di Jalta, da dove si sentiva il rumore del mare e il fruscio del vento tra le acacie del giardino, e si intravedevano i baluginii dei fuochi accesi sulle montagne, e si ascoltavano i canti lontani di qualche ubriaco. Stava, forse, già prevedendo gli sviluppi complessi della loro relazione? O era semplicemente la vita che, inesausto, continuava a interrogare, perfino nell’ebbrezza dell’incantamento amoroso?

Da quando le ho lette per la prima volta, quelle parole mi risuonano spesso nella testa. Forse per questo motivo sogno spesso di poterle leggere in pubblico: per esorcizzare gli interrogativi che pongono. Ma anche perché a leggerle e rileggerle ad alta voce, quelle parole, si prova un certo conforto, sapendo che qualcuno le ha pensate per tutti noi, come un fratello maggiore che ci guarda con indulgenza e ci comprende, e ci accompagna. Ci danno il senso, quelle parole finali, di qualcosa che procede, inesorabile, verso il proprio compimento, benché difficile, benché complicato. Perché, come Čechov sapeva forse meglio di chiunque altro, niente nella vita ci viene regalato. E tutto ha un costo, e tutto bisogna pagare, fino all’ultima stilla di felicità.

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