“Nel folto dei sentieri” di Umberto Piersanti
Natura e creazione
Nella sua nuova silloge il poeta urbinate ricerca l’uscita dal groviglio etico-esistenziale per riapprodare alla conciliazione originaria tra Creato e Creatore. Dove si prefigura un tempo nuovo…
La poesia di Umberto Piersanti ha essenzialmente due temi: la natura e il figlio Jacopo. All’interno dell’ultima silloge pubblicata dal poeta urbinate, Nel folto dei sentieri (Marcos y Marcos, 235 pagine, 17 euro), queste linee liriche, erbose e afflitte al contempo, si compenetrano prodigiosamente, sino a considerare che Jacopo è natura, paesaggio interiore con un’alta possibilità di trascendenza («Jacopo anche tu/ da una forza nera/ scelto e devastato,/ solo che quella donna/ risale ai prati,/ sparge i fiori tra l’erbe/ nei campi il grano»). Il figlio è creazione e laceramento della creazione, distacco, frantumarsi dell’anelata unità, nei confronti del quale sembra necessaria una faticosa dedizione, un amore grande («ma io t’ho portato/ sulle spalle/ come mio padre/ al fosso dov’è la casa,/ mi ha posato nell’erba/ oltre il torrente,/ io dai rovi ti strappo,/ dagli spini folti») che anche confida nel premio decisivo della salvezza («ma la memoria nutre/ la tua giornata»), proprio per il suo contenuto di irriducibile sofferenza.
Il folto dei sentieri è il groviglio etico-esistenziale da cui si dipana la ricerca, mai dismessa, della pace assoluta, del principio di onnipresente requie che rende reale e veritiera la fine del patibolo. Uscire dai gangli del dolore significa attraversare con coraggio ogni travagliata stazione della vita («il Purgatorio è altissimo/ e sospeso,/ pazienza e calma ci vuole/ per salire») per sospirare un futuro di edenica felicità («adesso non hai pecore/ o fatiche,/ adesso per i campi/ lo puoi cercare,/ quel tronco dove cade/ lo puoi trovare»), ancora osservata dietro al vetro della presenza umana («ma alla finestra resti,/ solo a guardare,/ i molti libri pesano,/ i molti anni»).
Piersanti assomiglia a un affilato passeggiatore di boschi, un navigato profeta dell’incanto, un folletto incanutito che sale e scende per i declivi delle Cesane alla ricerca del sentiero giusto entro il quale Creato e Creatore riescono a disvelare la loro maschera identitaria. Un equivoco di bellezza li sorprende mentre sono un’unica sostanza. Ma, al fondo del suo convincimento, il poeta sa bene che esiste una differenza effettiva tra i due, tale da innalzare vorticosamente il Creatore in qualcosa di inconoscibile e liminare per leopardiano abbaglio («forse dietro quel promontorio/ e quella strada c’è un luogo/ che li attende,/ la vera patria,/ quella che sta sempre/ oltre il confine»), che non può esser detto né compreso. Il crivello dell’illusione, però, riporta rapidamente il sogno dentro la «vita fedele alla vita», direbbe Mario Luzi, e il poeta, cavaliere del presente, riprende l’incessante passo verso l’altrove, segnato da nubi e schiarite, da disarmi e affidamenti («e sogna il cavaliere/ la bianca strada,/ un luogo non l’attende,/ il suo cammino/ un cammino eterno/ e infinito»).
Nel punto di convergenza di quell’altrove giace la speranza sottesa che Jacopo e la natura ricompongano la conciliazione originaria, tornando dunque a uno stato antecedente all’hic et nunc, del quale si sperimenta la nostalgia e il duro intreccio. Il vincolo terrestre è altresì difficile da abbattere («questo feroce legame/ con la terra/ nessuna metafisica/ lo spegne»), e la speranza cangia in muta accettazione del domani trasognato nel grembo dei boschi, lungo la quiete delle radure, non viste con Heidegger nel sembiante dell’Ereignis impersonale, l’evento dell’essere, ma percepite in più morbidi toni crepuscolari del disincanto («ma se sulla terra/ ti distendi/ con l’erbe sopra gli occhi,/ i sassi accanto,/ si perdono nell’aria/ anche i dolori»). Il passo di Piersanti persegue il tempo differente, l’istante isolato dentro il quale si mostra come il bagliore del sole «la vita che si queta», e Jacopo e la natura paiono giocare concordi l’uno nell’altro. E tutto prefigura un tempo nuovo, un nuovo inizio.
ma la corsa dei giorni
non s’arresta
e io debbo tornare
alla mia casa
e scendere alla tua
così lontana,
il tempo non scegliamo
e le vicende,
l’unica libertà
resta la fuga,
così fragile e breve,
così assoluta