Orio Caldiron
Un saggio sul grande regista

L’occhio di Lattuada

Esce un libro che rievoca "Venga a prendere il caffè da noi", grande film di Alberto Lattuada con Ugo Tognazzi che prendeva di mira senza moralismi i vizi dell'Italia anni Sessanta. Ne anticipiamo la prefazione

«Lo spettacolo della vita è enorme, e ognuno porta su di sé dei segni accumulati, perfezionati in tanti anni, ciascuno è un concentrato di cose, e ha manie che ha portato al massimo dell’espressione. Nessun sceneggiatore può vivere tante vite, bisogna rubare nelle vite degli altri. Per me la galleria dei quadri di vita è davvero una scuola continua». C’è tutto Lattuada in questa celebrazione dello «spettacolo della vita», nel gusto di catturare i «segni accumulati» nel corso degli anni, nell’attenzione per le «manie» colte nel «massimo dell’espressione», nel programma esplicito di «rubare nelle vite degli altri», senza smettere mai di imparare dalla «galleria dei quadri di vita». Si sente soprattutto il disincantato atteggiamento di spettatore della vita del regista lombardo, sempre in bilico tra partecipazione e distacco, lucidità e coinvolgimento, l’immagine perfetta e il gusto di sperimentare. Non occorre rievocare i grandi appuntamenti in biblioteca con gli strepitosi film letterari come Il delitto di Giovanni Episcopo, Il mulino del Po, Il cappotto, dove la tensione stilistica sembra rimandare alla passione del giovane cinefilo a caccia di film da salvare. Ma come dimenticare dopo Gogol’ le altre riletture degli amatissimi russi, da Puškin a Čechov e a Bulgakov? Il rigorismo calligrafico degli inizi si stempera nell’ambizione popolare  di  Il bandito e di Senza pietà, in cui il noir si mescola con il plein air neorealista, e di Anna, dove l’appeal divistico non esclude il melodramma più claustrofobico.

Nel suo rapporto complesso e ambivalente con la commedia all’italiana – dall’intransigente cattiveria di La spiaggia alla impietosa radiografia della trasformazione antropologica di Mafioso – rientra anche l’epopea sessualgastronomica dell’Emerenziano Paronzini di Venga a prendere un caffè… da noi a cui Angelo Zanellato dedica questo bel libro. Nell’appassionata puntualità dell’analisi, nella amplissima raccolta di riscontri critici allineati in bell’ordine dopo i brani più significativi della sceneggiatura, c’è qualcosa che sarebbe piaciuto all’Architetto, che per tutta la vita ha raccolto le recensioni dei film e i saggi dedicati al suo cinema, sempre pronto a prestarti le fotografie necessarie per completare il pezzo o illustrare il volume attingendo dal suo splendido archivio personale. Il film del 1970 è, assieme a pochi altri, uno degli ultimi grandi titoli di Alberto Lattuada che fino a La Cicala continua a rinascere continuamente dalle ceneri degli insuccessi per riaffermare le profonde ragioni del suo cinema d’autore sempre legato alla forza dell’immagine giusta, alla tenuta del racconto audiovisivo, alla capacità di cogliere persone e ambienti in pochi tratti emblematici, riconoscibili, crudeli.

lattuada venga a prendere il caffè da noiL’incontro con la narrativa di Piero Chiara, con la sua polifonica attitudine a variare all’infinito le storie del lago tra anteguerra e dopoguerra, non poteva essere più felice. Il protagonista c’è già tutto sulla pagina con i suoi vizi, le sue manie, le sue abitudini, le sue ambizioni, le sue letture (impagabile il riferimento alla Fisiologia del piacere di Paolo Mantegazza, tipico manuale dell’edonismo d’antan), ma rivive di vita veramente vissuta solo nel momento in cui s’incontra con la sanguigna volgarità padana di Ugo Tognazzi, con lo sguardo vacuo del grande attore cremonese affacciato sull’abisso della carne, sul mistero flagrante della donna, brutte comprese. Quando al ristorante con uno stecchino si pulisce le unghie, le orecchie, i denti, un piccolo e disgustoso dettaglio che non c’è nel libro ma è stato aggiunto di proposito dal regista, lo vediamo muoversi come se ce l’avessimo davanti, come se l’avessimo sempre conosciuto sullo sfondo di quella provincia meschina con i suoi segreti e le sue ipocrisie, “un pie’ in ciesa e l’altro in casin” , come diceva Delio Tessa, che è l’anima segreta del film, una delle ragioni della sua permanente attualità.

Il sarcasmo espressionista di Lattuada lascia il segno. Il successo di Venga a prendere il caffè… da noi inaugura una folta galleria di titoli tratti dai bestsellers di Chiara. Il più estroso è Il piatto piange di Paolo Nuzzi che anima un godibile teatrino di marpioni con la faccia da poker alle prese con le ripicche e le ipocrisie della psicologia lacustre. Il più fortunato è La stanza del vescovo di Dino Risi che, destreggiandosi abilmente tra commedia di costume e scheletri nell’armadio, alterna la gastronomia all’erotismo in un memorabile ritratto di italiano spregevole velato di malinconia, apprezzato al box-office. Forse la palma sarebbe toccata al Pretore di Cuvio, lo straordinario romanzoche il produttore Leo Pescarolo per anni ha cercato di portare sullo schermo con Lucio Dalla protagonista, senza mai riuscire a convincerlo a mettere la sua statura a disposizione del minuscolo personaggio.

Alberto LattuadaCome in un gioco di scatole cinesi o una specie di matrioska russa, il libro ha più di un finale. Quando pensi che sia finito con la rassegna delle dichiarazioni del regista e degli interpreti, ricomincia da capo con il vastissimo panorama dei pareri critici. Ma la sorpresa maggiore viene dal quaderno di appunti steso all’epoca della lavorazione, in cui il critico diventa scrittore. È un giorno terribile quello in cui, uscendo dalla nebbia dell’autostrada, arriva a Villa Battaglia, vicino a Ponte Tresa, la cittadina del Lago Maggiore in cui si sta girando il film, è addirittura il 12 dicembre 1969, il venerdì nero della tragedia di Piazza Fontana. Ma il singolare diario ritrovato, pieno di aneddoti e di curiosità, ce lo fa dimenticare presto per immergersi nella quotidianità della vita della troupe a cui partecipa accompagnando le attrici in albergo, una alla volta perché nel suo coupé rosso fiammante si entra solo in due, e le lunghissime gambe di Francesca Romana Coluzzi – celebrate in una indimenticabile sequenza – rischiano di rimanere fuori. Acquistando tutti i giorni i giornali in riva al lago, quando la sorridente edicolante diventa meno gentile è perché ha scoperto che anche lui fa parte dei cinematografari che stanno lavorando al film tratto da La spartizione e solo più tardi verrà a sapere che era una lontana parente delle sorelle Tettamanzi. Se i cognomi erano stati cambiati,  anche questa volta Piero Chiara aveva attinto alle storie del lago, alle chiacchiere, ai pettegolezzi, ai si dice sussurrati nei bar e che sembra di sentire come una parallela colonna sonora in sottofondo nelle pagine dello scrittore, nella sua prodigiosa affabulazione orale da cui il grande regista ha tratto ispirazione per il suo film. L’ultimo capitolo, Ritorno a Luino, accorato sopralluogo più di trent’anni dopo, è alla fine una sorpresa nella sorpresa, un ritorno sul set vuoto, abitato dai fantasmi. Quasi una conferma, se ce ne fosse bisogno, che la realtà non è in grado di competere con il sogno del cinema.

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