L'elzeviro secco
L’etica di De André
Mentre il mondo ondeggia tra nuove minacce atomiche e vecchie pulsioni razziali, è tempo di riascoltare la poesia della limpidezza di Fabrizio De André. Diciassette anni dopo
Sono passati diciassette anni da quando il più grande cantautore italiano, Fabrizio De André, è scomparso. Si può dire, a torto o a ragione, che in molti casi le sue canzoni hanno supplito alla mancanza di una poesia veramente popolare. Ne è testimone il fatto che tanti giovani di ieri e di oggi si appellano a lui quando cercano qualcosa dalla poesia, quel qualcosa che la maggior parte dei poeti di adesso, perduti nell’esercenza di un intellettualismo sporco e non comunicativo, non riescono a dare. E codesto qualcosa credo coincida con la suprema ricerca del limpido nel torbido, del punto bianco nel nero di seppia, della chiave di volta in un ammasso di ferraglie. La ricerca del limpido è la traccia che attesta la nostra sopravvivenza al mondo e la possibilità di un cambiamento: è una speranza, forse disattesa in partenza, ma necessaria. Il limpido è anche una categoria politica.
De André ci ha insegnato a non giudicare senza conoscere (meglio non giudicare mai), a non ghettizzare anche solo con il pensiero, ché spesso il pensiero può diventare il ghetto dell’anima nella palude delle rigide convinzioni: e a ciò non esiste forse rimedio.
Rivendicando strenuamente, dall’epoca di Bocca di rosa fino alla sublime Smisurata preghiera, la dignità di ogni minoranza, l’onorabilità dell’essere umano anche nelle condizioni peggiori, soprattutto se nelle condizioni peggiori, De André ci ha lasciato un’opera organica, come nessun altro cantastorie è riuscito a fare, nemmeno mostri sacri del pari di Bob Dylan o Georges Brassens; opera che reca dietro di sé la stimma di un riscatto sociale, il quale però non conclude la sua partita nel tempo storico marxiano, ma chiede, esige un tempo supplementare giocato in un altro campo, osservato di sbieco e sospirato. Il suo neorealismo, se così si può definire, reca dunque in sé un contenuto intimamente mistico, che è mancato ad altre tipologie di neorealismo.
Nello specchio interno di tale consapevolezza, egli rifiuta ogni aggetto di ideologia, vieppiù se religiosa o governativa, mostrandosi sempre dalla parte di un volto, di una presenza umana, e mai dalla parte di un’idea rigida, esigendo ad esergo la certezza culturale che «non ci sono poteri buoni» (Nella mia ora di libertà) e che gli spettatori borghesi dei massacri e delle ingiustizie, per la loro stessa condizione di spettatori e di borghesi, resteranno «per sempre coinvolti» (La canzone del maggio) nel grande insulto dell’indifferenza.
Ma De André ci lascia anche un’alternativa politica molto attuale e concreta, che si traduce presto nella speranza di un regno etico, all’interno del quale l’uomo possa abbattere contemporaneamente le connivenze delle gerarchie e gli abbagli delle rivendicazioni di plastica. È un regno mediano, capace di realtà e mancante di compromesso, che sa ancora scorgere la limpidezza in ciò che è oscuro, la brillantezza in ciò che è opaco. Questa alternativa politica si compone fluidamente ne La domenica delle salme, quarta traccia dell’album Le nuvole (Ricordi, 1990, 41’ 24’’).
Folgorante è l’inizio, corredato di una musica uguale e intensa e di una voce cava, avvallata: «Tentò la fuga in tram/ verso le sei del mattino/ dalla bottiglia di orzata/ dove galleggiava Milano/ non fu difficile seguirlo/ il poeta della Baggina/ la sua anima accesa/ mandava luce di lampadina/ gli incendiarono il letto/ sulla strada di Trento/ riuscì a salvarsi dalla sua barba/ un pettirosso da combattimento».
All’umanità scossa dalla pace terrificante nel giorno in cui gli addetti alla nostalgia trasportano il feretro del defunto ideale, giorno della caduta del muro di Berlino, nulla si può opporre, nemmeno il cicaleccio della vibrante protesta, ormai vecchia e decontestualizzata. Ma l’ironia c’è ancora e ha potere di ribaltare i termini in questione.
Secondo la testimonianza di Mauro Pagani ne La domenica delle salme c’è «tutta la grandezza di Fabrizio narratore. Ci sono tutti gli elementi per capire, ma tutto è raccontato, non ci sono sintesi o giudizi, che, come lui diceva spesso, nelle canzonette sono peccati mortali. La visione del tutto scaturisce dalla somma di tante piccole storie personali, nessuno grida in quella ridicola tragedia. Nessuno punta il dito, tutto si spiega da sé».
La canzone è tirata su come una tela di Pieter Brueghel il Vecchio. Nel suo stile pittorico l’umanità pullulante è ritratta con un’accuratezza lenticolare: le passioni sono visibili e spesso mortali, ogni cosa emana l’olezzo del lutto e dell’ineluttabile, ma è appunto l’ironia – il dichiarare l’opposto di quello che si pensa – come prassi decostruttiva del reale a sovvertire il rapporto tra essenza e fenomeno e a consentire un’analisi più lucida di ciò che accade. Il limpido è colto allora nella negatività del suo essere rispetto al torbido dilagante: là dove proprio non è, per assoluta negazione, esso appare.
L’ironia permette a chi la esercita, l’ironista kierkegaardiano, di prendere le distanze da ciò che ha detto, liberandosene, tagliando i rifornimenti e la vitalità ad un’esperienza che è riconosciuta come priva di valore. Di qui sorge un nuovo inizio che rivela una più attenta coscienza del reale e della storia.
In effetti, La domenica delle salme narra ciò che stiamo vivendo non in questa epoca, ma in questi giorni: la precisione è spaventosa e spiega ciò che una lingua poetica può fare: adattarsi alle contingenze, rivelandosi profetica.
La Corea del Nord che testa una bomba H, Obama che piange in televisione e i fatti scabrosi della notte di Colonia si legano in un perfetto rammendo alla scimmia del quarto Reich, al ministro dei temporali, al gas esilarante che presidia le strade.
Alle regine del tua culpa che affollano i parrucchieri.