Lettera dalla Tunisia
Lampi su Kairouan
L'unica, fragile democrazia del mondo arabo è in bilico, stretta tra corruzione interna e tentazioni jihadiste. Siamo andati a vedere che cosa sta bruciando nelle province. Per capire che serve una svolta, quasi un nuovo Piano Marshall
Che cosa sta succedendo in Tunisia? Al di là di nuove narrazioni evocative di un passato prossimo – figlie più di una certa “pigrizia” mediatica che della realtà – sarebbe utile capire gli eventi, spesso contraddittori. Con la Libia, in teoria, a un passo da una svolta con un governo unitario benedetto dall’Onu, ma assai fragile, e anche a un passo dal Califfato, nonostante la mobilitazione internazionale. La Tunisia trema temendo un contagio ed è una candidata naturale quale bersaglio dei “progetti” di Stato Islamico.
Le proteste sono legittime: corruzione, nepotismo, crisi economica, ombre del vecchio regime che continuano ad aleggiare sul paese, senso di una “rivoluzione” tradita. Tutte cose vere, anche tre anni fa, quando i media si affannavano a raccontare un’altra storia. Ma che cosa lega i giovani e i disoccupati che chiedono «lavoro, libertà e dignità» con gli assalti agli uffici pubblici e alle stazioni di polizia nelle zone più interne? Che cosa unisce la protesta “consapevole” con la furia distruttrice e le tattiche da “guerriglia” urbana che abbiamo visto direttamente a Kairouan? E che si sono manifestate anche in altre zone rurali e povere del paese (Siliana, Tahala, Feriana, Sbiba, al Fahas, ad esempio) ma anche ricche come Sousse? E, ancora, in questo puzzle tunisino, in quale posizione mettere le tessere dello jihadismo combattente, le bandiere nere di Daeesh o di altre sigle, che hanno colpito gli stranieri nella carne, e i tunisini nel portafoglio, al Bardo e a Sossue, e le guardie presidenziali nel cuore della capitale lo scorso inverno? Tanto per citare solo i principali episodi del 2015.
Cercheremo di spiegarlo scusandoci per le necessarie semplificazioni che dovremo utilizzare all’interno di un articolo. Cominceremo questo racconto da Kairouan, città nevralgica della Tunisia centrale, zona rurale, ma non così povera come Kasserine o Ben Gardene, ricca di storia con la presenza della moschea Okhba, importante centro di studi coranici già dall’VIII secolo d.C., vicino alla capitale fatimide (al Mansurya) e quartier generale di Ansar al Sharia Tunisia fino al 2013. Moschea presa ad effige dei folli progetti di SI che l’aveva messa in copertina sulla propria rivista Dabiq (il nome di una cittadina siriana, dove secondo la tradizione si svolgerà una battaglia decisiva contro i cristiani) nel numero seguito alla strage del Bardo e prima di quella di Sousse. In quelle pagine si parlava dei due giovanissimi jihadisti, immolati sull’altare della follia omicida assieme alle loro vittime, tra le quali molti italiani. Venivano definiti «i leoni del Bardo».
Al Kairouan
Uno sciame di ragazzi si muove velocemente seguendo un pick-up lungo una strada secondaria di citè al Shabab, quartiere popolare di Kairouan, Tunisia centrale. È ormai sera e il debole riverbero giallo dei lampioni crea piccole isole di luce in mezzo al buio, bolle dal chiarore attenuato e irregolare, attraversate da un flusso umano disordinato che si forma e si rompe, cresce dopo ogni angolo, ingrossato da un altro gruppo uscito dall’ombra, come un fiume in piena. Per poi sfaldarsi, disperdersi e riformarsi più avanti, verso un altro anfratto buio, un altro pezzo di strada, un altro rendezvous improvvisato. Ogni tanto qualcuno mette sul pick-up bastoni e pietre, altri saltano sopra, poi scendono per far posto ad altri ancora. La sinistra processione, nervosa, eccitata, procede a scatti, spesso interrotta dall’arrivo di un mezzo della polizia o delle Bat (Brigata antiterrorismo) che qui hanno una caserma. In questo gioco a rimpiattino la polizia tunisina vince, per il momento. Gli uomini in divisa sono decisi, determinati si vede che conoscono i loro polli. Non sono i fighter armati di Kalashnikov ed Rpg (lancia granate). Si vede che c’è una regia e che di spontaneo c’è poco. I loro movimenti assomigliano più a tecniche di guerriglia urbana. Una maniera per testare la risposta della polizia. Informazioni preziose per chi un domani volesse mettere in campo azioni di tipo “militare” contro quelle stesse forze. Ma questa è un’ipotesi, per il momento. A Kairouan abbiamo visto anche dimostrazioni pacifiche di tassisti o altre categorie che stanno soffrendo, per una ragione o per l’altra, i morsi della crisi. E colgono l’occasione per sit-in davanti al governatorato o con proteste più articolate. Insomma, si sfrutta il clima, ognuno con le proprie istanze.
Sono con Abouda, amico e collega. Lui vive qui e conosce i segnali che il territorio urbano manda. Sa decifrare i codici della vita di quartiere. È da mezzogiorno che giriamo, ci fermiamo a parlare con gente del posto, amici, commercianti, ragazzi di diversi quartieri. Poi un salto in moschea per la preghiera dell’Addhur. È venerdì, ed è l’appuntamento principale. L’imam parla per una ventina di minuti, dice le stesse cose che direbbe un prete cattolico durante una predica, stesse raccomandazioni, stessi richiami ad una vita più retta e meno materialista, indirizzata all’aiuto del prossimo. Riprendiamo a “pattugliare” Kairouan. Ci dirigiamo a nord sulla shera (via) Bassans des Aglabides: nella notte hanno dato l’assalto ad un ufficio doganale devastandolo. Quando arriviamo, ci sono ancora i vigili del fuoco che stanno svuotando gli uffici di ciò che è rimasto. Sul marciapiede sotto l’ingresso, un mare di carte, probabilmente effetto della furia che non ha risparmiato neanche un’auto delle dogane ridotta ad una lattina accartocciata.
Gli attacchi a sedi governative, stazioni di polizia come le dimostrazioni pacifiche si sono materializzate nel giro di pochi giorni. Il motivo scatenante? In apparenza una storia di ordinaria disperazione. Un giovane disoccupato di Kasserine che si vede cancellato dalla graduatoria per un lavoro. Per protestare sale su di un traliccio dell’alta tensione di fronte a un ufficio governativo e muore folgorato. C’è chi subito è corso a fare paragoni con il povero ambulante di Sidi Bouazid, Mohamed Bouazzizi, che si era dato fuoco, dando l’avvio alla cosiddetta Primavera dei gelsomini. Ma sarebbe più saggio aspettare, prima di annunciare nuove primavere. I problemi ci sono: corruzione, nepotismo, crisi economica, ancien régime che continua a fare capolino, senso di incompiutezza di una lunga transizione, senso di tradimento rispetto alle promesse di cambiamento. Nonostante le elezioni, la nuova costituzione e la ciliegina sulla torta del Nobel per la pace al cosiddetto Quartetto che aveva permesso una transizione “indolore” dal governo di Ennahda e della trojka alle elezioni dello scorso autunno per politiche e presidenziali. E la corruzione – vero cancro che erode risorse economiche e legittimità a chi governa (chiunque) e che impedisce ogni seria riforma e crea una frustrazione diffusa fra i cittadini – è un problema quasi endemico.
Per poter leggere i fatti di queste settimane, i nuovi lampi sulla Tunisia, occorre, ahinoi, citare un politico. Il primo ministro tunisino, Habib Essid, che giustamente ha sottolineato come sull’onda di legittime rivendicazioni si potrebbero inserire i casseur, i nemici di quello che è l’unico modello di “democrazia” rimasto nel dopo-primavere. «La democrazia va difesa ad ogni costo», ha dichiarato il Primo Ministro.
Ma se guardiamo alla storia di questa regione, non è la prima volta che rivolte riformatrici non riescono a centrare subito l’obiettivo. Era successo anche nel XIX secolo sull’onda di riforme tardive, illusioni illuministe seguite all’arrivo, seppur fugace, di Bonaparte in Egitto, o a seguito della corrente delle Tanzimat che aveva prodotto più a livello culturale che politico. Riforme e cambiamenti abortiti, riusciti a metà o falliti. Del resto anche in Europa le ciambelle rivoluzionarie hanno impiegato del tempo per trovare il buco della giusta circonferenza.
Restando con i piedi per terra, la domanda da farsi è se esistono segnali che in Tunisia si stia preparando il terreno per un nuovo periodo di instabilità che potrebbe sfociare in qualcosa di peggio. Purtroppo ci sono indizi di un tentativo per infettare la Tunisia col morbo Daeesh, usiamo questa sigla per semplificare. Vediamo di spiegare in maniera approssimativa che cosa e come potrebbe succedere. Innanzitutto serve comprendere le dinamiche, legandole a ciò che sta succedendo ora sul terreno.
Per aiutare a capire il lettore di cosa stiamo parlando farò riferimento a un modello Fallujah, non perché pensiamo ci sia una situazione di simile gravità. È il modello “sociale” (parafrasando una terminologia da anni Settanta) che ci interessa, le connessioni tra area di illegalità, contrabbando, crimine e lo jihadismo combattente.
Modello Fallujah
Subito dopo l’invasione dell’Iraq e la serie di errori inanellati dalle reggenze provvisorie, una delle province in cui esplose la rivolta dei cosiddetti “insorgenti” fu l’Anbar, ancora in queste settimane non completamente riconquistato dalle forze irachene dalle mani dei miliziani del Califfo nero. Fallujah era una cittadina sul fiume Eufrate, grazie a questa via d’acqua è stata da sempre sede di ogni genere di contrabbando e commercio illegale. Qui come altrove comandano le tribù, sorta di attori non statali molto potenti. La presenza in queste aree dello Stato inteso come viene inteso nei Paesi MENA e musulmani, cioè detentore di potere e violenza, non è mai stata molto forte e ha sempre avuto bisogno di una mediazione. In questo caso quella delle tribù. Escludiamo dal discorso i problemi legati alle divisioni confessionali sciiti/sunniti, perché non funzionali al paragone con la Tunisia. È evidente che lo jihadismo combattente di marca wahabita trovi condizioni favorevoli in queste zone. Scarso controllo del territorio da parte delle forze di sicurezza; clima favorevole nella popolazione che non ama un potere che non crea ricchezza e a livello locale è gestito da rappresentati governativi spesso corrotti; la possibilità di utilizzare le ratlines del contrabbando per i rifornimenti di tipo “militare” in caso di guerriglia organizzata; la possibilità di dissimularsi tra la popolazione una volta persa l’iniziativa “militare”. Prima gli insorgenti e poi SI hanno dimostrato come questo modello funzioni. A livello militare, gli Usa hanno altresì dimostrato di poterlo sconfiggere sul piano della forza. L’operazione Phantom Fury dell’autunno 2004 ne è la prova. Ma se alla prova di forza non segue una fase di confidence building con le istituzioni non si va lontano. Parliamo non solo di un modello di economia locale che funzioni e riduca drasticamente l’area di illegalità, ma soprattutto che riporti il senso di “giustizia” sul piano, se non della realtà fattuale (servono decenni) almeno su quello della percezione generale. Se in Occidente il modello socio-politico è centrato sul binomio libertà/responsabilità ed è servito a combattere e sconfiggere le dittature (almeno in parte) nel mondo musulmano questo binomio diventa uguaglianza/giustizia, lì il problema è sempre stato combattere e sconfiggere la violenza e i privilegi di chi governa. Scendere in piazza gridando Allah akhbar era un mezzo per dimostrare e protestare senza farsi massacrare dal dittatore di turno. E spesso non bastava. L’Islam dunque veniva inteso come ultima istanza contro i sopprusi del potere.
In Tunisia promettere cinquemila sussidi da 200 dinari al mese, meno di 100 euro, tenendo conto che i salari tunisini sono livellati verso il basso, e subito dopo smentire, non è quello che si può definire una politica responsabile. Neanche consentire l’esistenza di sacche di corruzione nella pubblica amministrazione è un’opzione intelligente. La scelta è ora semplice, combattere la corruzione che è materia lunga ed estenuante, soprattutto per politici istant coffee, perché un apparato statale corrotto che si senta sotto attacco tende a ricattare e fare catenaccio, creando ogni genere di “difficoltà” all’attività politica. Oppure combattere quelli con l’Ak-47 in mano. La cattiva notizia è che si è perso tempo. Servirà fare entrambe le cose.
Il contagio e la cura
Sono dunque queste aree a formare il tessuto malato delle comunità musulmane dove il morbo Daeesh e consimili può attecchire più facilmente. E qui nascono i legami tra jihadismo combattente e criminalità organizzata. Non è un’alleanza ideologica ma una sorta di unione di fatto, come dimostra il cosiddetto modello Fallujah. E anche un’alleanza che può attecchire solo grazie ad un periodo molto lungo di errori. La prima fase è una convivenza di interessi, poi si passa a progetti comuni, poi ancora il network si allarga ad esempio alle fasce di radicalismo “buono” come il salafismo “scientifico” che non sopporta quello combattente, ma non per questo diventa automaticamente filogovernativo, e infine la popolazione in generale, quando il senso di tradimento da parte del governo lo spoglia di ogni legittimità. A questi fattori generici se ne aggiungono molti altri a seconda della realtà, che ci si trovi in aree di guerra conclamata come in Siria (stato fallito), di scontro finale come in Iraq, cui auguriamo diventare presto una democrazia, di forte instabilità all’interno di una restricted democracy come un noto magazine britannico definisce l’Egitto. In questa classifica il piccolo paese maghrebino risulta l’unico modello funzionante di “democrazia”… con tanti problemi da risolvere.
In Tunisia, mutatis mutandis, le aree a rischio si chiamano Kasserine, Ben Gardene, Tathaouin, Gafs, al Kef, Kairouan, alcuni quartieri della capitale come cité Etthadamen, tanto per citarne solo alcuni. Servirebbe, dopo una prima fase di confronto militare per estirpare le radici dello jihadismo violento, una sorta di piano Marshall attualizzato. Attualizzato alle realtà locali e alla disponibilità di risorse nazionali e internazionali disposte a investire sul medio lungo termine. Ma non esistono altre formule magiche. E occorre capire come la fase delle primavere, reali o in parte “drogate” e quella precedente, dove si è formato un primo nucleo di opinione pubblica, si è svincolata parte della popolazione dal voto di scambio e si sono create molte aspettative, sia servita a introdurre cambiamenti importanti ma incompleti. Per non perdere ciò che si è conquistato – nonostante la cronaca dall’ultimo anno spinga verso un certo pessimismo – serve coraggio politico da parte dei governi locali e da parte del contesto internazionale. Ora la classe media dei paesi MENA assomiglia sempre di più a quella che potresti trovare ovunque, fatte le debite differenze, ma soffre ancora di una sorta di lettera scarlatta cucita addosso: essere musulmana. Se l’Occidente continuerà a trattare queste aree con sufficienza paternalista o peggio con cinismo, i danni saranno irreparabili, ammesso che non si già così.
Né in Tunisia mancano i riferimenti storici e le basi culturali per elaborare modelli “moderni” di società musulmana integrata con la modernità. Faccio solo un esempio citando Khayr al Din (1822-1890) e il suo tentativo di trovare la quadra tra riformismo e islam, i suoi legami col mondo ottomano – fu anche gran wisir a Istanbul – in pratica il suo tentativo di salvaguardare le radici culturali del mondo musulmano in un periodo di debolezza nel confronto con l’Europa. Doveva pensare come introdurre in quelle società, spesso molto arretrate, due concetti che riteneva fossero i punti di forza dell’Europa moderna, allora un modello vincente: la limitazione del potere dei governi e la flessibilità del pensiero religioso. A oltre un secolo di distanza sembrano nodi ancora irrisolti.
Le fotografie sono di Pierre Chiartano