Un bell'esordio poetico
La formula della vita
Con la raccolta “Come fosse giovedì", il poeta toscano Michele Paoletti va alla ricerca di un sistema esatto, una formula che sappia rendere compiuta la nostra presenza tra i fatti e le cose
È possibile pensare che esista una logica che tiene in piedi il mondo, una geometria che sappia spiegare le relazioni, i piccoli e i grandi eventi che contraddistinguono un’esistenza. Forse a sostenere le nostre vite è un sistema di linee che suggerisce infine un disegno preciso, che inserisce le immagini, anche quelle più caotiche, in una cornice dai contorni netti. Le poesie che compongono il bel volumetto Come fosse giovedì (Puntoacapo, € 8), che segna l’esordio nella poesia di Michele Paoletti, sono alla ricerca di un sistema esatto, una formula che sappia rendere compiuta la nostra presenza tra i fatti e le cose. Ma la ricerca è infruttuosa o comunque ci mette di fronte ad un risultato diverso rispetto a quello desiderato, ci mostra la presenza di una sofferenza diffusa e di una altrettanto estesa condizione di disordine a cui non sappiamo dare una spiegazione.
Le linee, i reticoli geometrici dovrebbero consentire almeno che il corpo trovi un suo equilibrio a contatto con la realtà, che le nostre emozioni sappiano, a partire da coordinate precise, regolare il loro legame con le vicende della vita, ma questo non accade: «Gli spigoli del mio corpo / formano una macchia confusa / una catasta di nervi alla rinfusa / che si contraggono / come pesci sulla rena. / Poi arriva la piena delle parole / a dare a tutto un nome / a rituffare / le squame ovali in mare. / A rendermi lineare».
Le parole hanno il compito, se non di trovare una soluzione, almeno di esprimere una ricerca, che spesso si concretizza nello spazio ben caratterizzato del teatro, che per Paoletti, come recitano le esigue note biografiche è “passione da sempre”, un microcosmo ideale dunque, il luogo dove realtà e finzione entrano in contatto e si sovrappongono, dove l’accadimento tragico può confondersi con quello comico. È sulle assi del palcoscenico, nell’ambiente apparentemente protetto della rappresentazione scenica, in un luogo che nasce già come metafora della vita, che disperazione e tormento possono essere messi in messi in mostra senza il timore di apparire patetici. E’ in questo luogo deputato che è consentito consumare il proprio dramma, affrontare i reticoli dell’esistenza: «Sfido i fantocci al centro della scena / stringendo il mio copione / e la mia pena». O ancora: «Sono il tiranno / il faro sul soffitto / la botola sul palco / l’attore, lo sconfitto».
La rappresentazione dell’io è spesso realizzata attraverso richiami a presenze diverse, oggetti di poco conto, ambienti più o meno familiari, quasi che poeta senta il bisogno di misurare la proprio sofferenza e l’inevitabilità del male attraverso la concretezza delle cose, che si propongono come correlativi della condizione umana. «Stavano il mio letto e il sonno / in una scatola dal doppio fondo scassato / che mi portavo appresso / insieme ai pochi capelli gelosi / e qualche forchetta arrugginita. / Anche un vuoto di stomaco mi seguiva / attorcigliato alla tromba delle scale / che scendevo in fretta e risalivo / quando ancora era agosto / e avevo parole cesellate sulle labbra / e vuoti nella gola da pulire».
La lingua di Michele Paoletti, che è nato nel 1982 a Piombino, dove vive, è sempre fortemente scandita, presenta linee marcate e appare ancorata a un sistema di metafore che sembrano rincorrersi (tanto che a volte si rischia che il gioco sfugga di mano), con un uso, esibito solo a tratti, di rime e di figure foniche, che non inducono però mai alla cantabilità dei versi. «Non so se la notte è una distanza / o un balbettare della pelle / in una gabbia amare senza sbarre / non so se i morti hanno scarpe / con suole di cera / per alleggerire il valzer / che arrugginisce il meccanismo. // I cassetti non hanno serratura / i cardini stridono sconfitti / la volontà vuota le reti negli specchi».