A proposito de “Il giardino delle mosche”
La ferocia e la pietà
Andrea Tarabbia ha raccontato la "confessione" di Andrej Čikatilo, il «mostro di Rostov»: un romanzo terribile e dolente al tempo stresso, che indaga sulla ragione delle colpe
Andrej Romanovič Čikatilo (nella foto) è stato uno dei più feroci serial killer che la storia ricordi. Dal 1978 e il 1990 (anno della sua cattura), il «mostro di Rostov» ha adescato, seviziato e mutilato 56 vittime – la maggior parte donne, bambini e adolescenti – spesso mangiandone anche gli organi interni. Solo dal 1985, quando le indagini furono affidate all’ispettore Issa Kostoev, la polizia aprì una vera caccia all’uomo, che strinse il cerchio delle indagini attorno all’assassino sempre di più, fino alla cattura, nel novembre del 1990, cui seguì una lunga confessione, il processo e la condanna a morte eseguita il 14 febbraio 1994.
Comunista convinto, Čikatilo fuori casa era uno spietato psicopatico, in casa un buon marito e padre affettuoso di due figli. Su questo spaventoso sdoppiamento, e sulla figura dello «squartatore rosso» Andrea Tarabbia ha costruito il suo nuovo libro, Il giardino delle mosche (Ponte alle Grazie, pagg. 326, euro 16,80). Alla figura del serial killer ucraino già il regista David Grieco aveva dedicato nel 2004 un dossier giornalistico (Il comunista che mangiava i bambini) e un film (Evrilenko), con protagonista il Malcolm MacDowell di Arancia meccanica; prima c’era stato ancora un film tv americano e in seguito un romanzo poliziesco liberamente ispirato alla furia omicida del «mostro di Rostov», Bambino 44, dello scrittore inglese Tom Rob Smith (ristampato di recente da Sperling & Kupfer). Ma con Andrea Tarabbia – che nel suo precedente e ottimo Il demone a Beslan, Mondadori, aveva già affrontato l’orrore raccontando la strage compiuta nella scuola elementare in Ossezia dai terroristi ceceni – ci troviamo di fronte a un’operazione senza precedenti: il libro è infatti il resoconto romanzato della confessione che Čikatilo rilasciò all’ispettore Kostoev.
Lo scrittore di Saronno, dunque, sceglie coraggiosamente di adottare la prima persona, di dare voce al «mostro», il quale racconta all’ispettore la sua vita, ma anche i suoi fantasmi, come quello del fratellino morto (probabilmente mangiato dai vicini di casa durante la prima delle grandi carestie sovietiche), che si ritrova spesso accanto, adulto e imputridito, e della piccola Lena, la prima e mai dimentica vittima, che lo accompagna al cimitero presso la sua tomba.
Čikatilo nasce in un poverissimo villaggio ucraino e vive un’infanzia traumatica, tra la fame e le violenze della guerra, assiste allo stupro che la madre subisce da due soldati tedeschi e all’ostracismo che colpisce il padre, colpevole di esser tornato vivo dalle mani del nemico. Il suo nome, beffardamente, in russo vuol dire «uomo virile», ma una delle principali «mutilazioni» di Andrej (così le chiama lui stesso), anzi la causa primaria della sua psicosi, è proprio una umiliante impotenza sessuale che gli impedisce di avere qualsiasi rapporto con le donne, ma non di ingravidare per due volte la moglie (seppur in un modo alquanto macchinoso, che l’uomo descrive dettagliatamente).
Ora, tutte queste «ferite», così come la «grande e feroce solitudine» dell’anima che accompagna il futuro pluriomicida, non sono, naturalmente, evidenziate a giustificazione dei suoi delitti, o almeno lo sono solo dal punto di vista dello stesso Čikatilo, che nella sua deposizione cerca di difendersi e di salvarsi la pelle con il ricorso a una perizia psichiatrica: l’ambiguità del racconto in prima persona sta proprio nell’impossibilità di valutare la sincerità dell’uomo, che pure racconta senza remore e in ogni insopportabile dettaglio i suoi orrendi delitti. Non a caso, Andrea Tarabbia vi contrappone l’alter-ego Kostoev, l’ispettore che pur avendo patito lutti e privazioni simili nel suo passato ha perseguito una strada del tutto opposta, con l’obiettivo di marcare la singolarità del caso Čikatilo, la sua irriducibilità a qualsiasi giudizio o diagnosi. Il romanzo segue così la spirale di follia che travolge il carnefice e le sue povere vittime, considerate dal killer seriale dei rifiuti della società da eliminare per il bene dell’Urss, in una coazione a ripetere ossessiva, in cui frustrazione, cieca violenza e senso del potere procurano una vertigine di piacere per la quale l’uomo non è disposto a fermarsi davanti a nulla, il tutto sullo sfondo del progressivo e inesorabile sfaldarsi di quel gigante dai piedi d’argilla che è la Russia sovietica, fino alla sua dissoluzione completa.
Alla fine, però, anche di fronte all’impassibilità del resoconto di ogni crimine compiuto e al dimesso rientro nell’apparente normalità della vita domestica, la condanna morale (e penale), che è ferma e irrevocabile, non risolve l’enigma, le contraddizioni, l’insondabile verità nascosta nella coscienza dell’uomo. Il male, sembra volerci suggerire Tarabbia, si può raccontare ma non spiegare. La ferocia con cui Čikatilo mutila e mangia le sue vittime non esclude tuttavia – ed è questo il punto più alto del romanzo – la possibilità di un barlume di pietà umana, come quello che si accende forse, nella scena finale, un attimo prima dell’esecuzione, nello stesso Kostoev, quando si inginocchia davanti al condannato per togliergli le scarpe. «È questo che deve fare un Dio – gli sussurra Čikatilo – lavare i piedi».
Andrea Tarabbia, con Il giardino delle mosche ha scritto un libro importante, di una oscura potenza, con uno stile impeccabile e una costruzione solida che ne fanno già un classico, una metafora della follia dell’Urss comunista che divora i suoi figli, forse, ma soprattutto una ricognizione nell’orrore e nella banalità del male, nei quali ciascuno di noi può e deve confrontarsi, per fare i conti con il lato oscuro della nostra umanità. Perché, come dice il fantasma del fratello di Čikatilo, e come solo la vera letteratura in fondo sa riconoscere, «le storie non sono fatte per proteggere».