Ella Baffoni
Al museo Bilotti di Roma

Fenomeno street art

Viva sulle facciate dei palazzi per le quali è nata, morta nei musei oppure raccontata dalla fotografia? La street art discute del suo futuro. Accettando tutti i rischi

Nata nelle zone occupate, poi esplosa anche fuori, la street art viene considerata oggi un vivificante elemento del panorama artistico italiano, romano in modo particolare. Di questo stanno discutendo in questi giorni (ultimo incontro sabato scorso, ma altri ne seguiranno nei prossimi fine settimana) al Museo Bilotti (Aranciera di villa Borghese) alcuni curatori e critici, insieme al fotografo-artista Mimmo Frassineti, che proprio lì mostra le sue foto romane di street art. A partire dai prodromi anni ’70, la facciata delle case popolari di via Tor di Nona e il loro famoso “Asino che vola”, unico superstite dell’operazione di bonifica che pure quei murales invocavano.

Dibattito vivace, fitto di un pubblico attento: di questi giorni è la notizia del progetto bolognese, strappare via i dipinti murali dalla città per musealizzarli, Operazione voluta dal presidente di Genius Bononiae Roversi Monaco, e curata da Luca Ciancabilla e Christian Omodeo. Al di là della fattibilità legale dell’operazione (l’arte murale, qualunque sia la sua qualità, è un dono alla città e ai suoi abitanti. Toglierla, sia pure per preservarla, dal luogo in cui è stata fatta spesso in rapporto con i suoi abitanti, è semplicemente un furto) singolare è l’interesse da parte dell’esangue mondo dell’arte verso un’attività corsara e ribelle.

Street Art a PrimavalleUscita dal circuito del centri sociali – che hanno il merito di aver organizzato, fin dagli anni ’90, happening e incontri underground, in cui i writers sono cresciuti – la street art oggi è anche il cuore di progetti culturali degli assessorati alla cultura di Comune e Municipi, diventando il segno di una riqualificazione per interi quartieri, da Ostiense a Rebibbia a Tormarancia. Con il rischio, evidente, di farsi imbrigliare, di spegnere la forza evocativa, la relazione con i fruitori che pure erano all’origine del fenomeno. Non succede sempre: qui è la differenza tra artista e artista, la capacità personale di comunicare e non illustrare, e non decorare. La forza del sogno in opposizione alla pura capacità tecnica. Così Hitnes, Lucamaleonte, Hogre, Kobra, Atoche, Borondo, Ericailcane – pur esponendo anche in gallerie – mostrano una irriducibile diversità. E Blu, il migliore e più internazionale degli streetartist italiani, è così refrattario alla tentazione del successo da proteggersi in tutti i modi: negandosi alle interviste, negando il suo nome a chi lo sorprende al lavoro (sì, è successo a me). E andando a cancellare la sua opera – a Berlino, a Cuvrystrasse – quando l’edificio che esibiva la sua gigantografia dalle mani di squatter è passato a quelle di speculatori che ne avrebbero fatto un centro commerciale, e che pure avevano annunciato che il murale sarebbe sopravvissuto: Niente affatto, quell’opera è un non sense in quel contesto, lo imbianco io!

Sembrerebbe un’estrema difesa del dritto d’autore, come quella di Banksy, il più famoso writer del mondo, che ha negato la paternità delle sue opere rubate dai muri e vendute in galleria. Invece è il logico epilogo di un percorso: l’artista raccoglie un desiderio collettivo, una speranza, un ragionamento, e lo esprime come sa, con la sua intelligenza e le sue capacità. Fuori da quel luogo, fuori da quella relazione l’opera non ha ragione di esistere. A Roma Blu ha dipinto alcuni meravigliosi muri, al Porto Fluviale e a san Basilio, al Cinodromo e a Rebibbia, andateli a vedere finché resistono.

street art roma3Difficile capire davvero la potenza di quel dono, in un mondo che si basa sullo scambio impari, sui soldi, sul potere: sulla merce. È un dono pericoloso, che rischia anche la bruttezza, il fallimento: non tutta la vernice sui muri è bellezza. Certo è significato, e bisognerebbe saperlo leggere. Senza dimenticare – come invece fanno i critici d’accademia, anche i più interessati al fenomeno come Gianluca Marziani, che applicano agli artisti i parametri estetici da galleria – che le ragioni e l’anima di quel fenomeno sono altre, irriducibilmente diverse.

È un dono che rischia anche la cancellazione. Per l’incomprensione – a lungo il nucleo decoro urbano del Comune ha cancellato cose pregevoli e lasciato intatto lo scandalo di muri degradati, e ci sono sempre benpensanti “popoli delle spugnette” pronti a cancellare quel che non capiscono – per il vandalismo o per le ingiurie del tempo. Rischio che chi dipinge i muri urbani si assume, insieme a quello dell’illegalità della propria opera. Per assurdo, un artista è passabile di multe e processi quando dipinge, ma potrebbe ritrovare il proprio dipinto privatizzato e mercificato da altri, una volta strappato dal muro, glorificato malgré soi.

Poi c’è il tempo, certo: il rischio calcolato di chi dipinge su carta velina attaccata come carta da parati su una superficie esposta alla pioggia o alla neve, al vento e al sole cocente. Non importa quanto durerà, il messaggio è lì, aprite gli occhi finché siete in tempo. Restauri? Macché, quando l’opera sarà cancellata ce ne sarà un’altra pronta, un nuovo e più attuale messaggio.

Un piccolo catalogo di quest’arte irriducibile la conserva il Maam, il Museo dell’altro e dell’altrove. Una ex fabbrica dismessa, occupata da un centinaio di senza casa che si accorgono come i grandi capannoni siano invivibili. E dunque, una volta autocostruito il villaggetto di casette a schiera, ecco entrare in campo Giorgio De Finis, antropologo e eccentrico intellettuale, che occupa i capannoni con una accorta regia di installazioni, murales, stanze affrescate, dipinte, istoriate. Un work in progress che, nonostante sia già disponibile un primo catalogo, difficilmente si fermerà. All’inizio demonizzato, racconta, «il Maam era considerato poco più di un postribolo, oggi i comitati di Tor Sapienza ci chiedono di curare e invadere la strada che collega il Maam con la stazione. Ci stiamo pensando: non basta chiamare una decina di bravi artisti, bisogna lavorare in modo differente, ragionare con gli abitanti sul concetto di bene comune. Non vogliamo mica fare abbellimenti o restyling. Vogliamo sognare insieme».

street art roma1Bello ci sia commistione tra artisti e writers, dice Stefana Fabrizi, sua la fila di guerrieri della luce che protegge il Maam fin dall’ingresso: come nel Cinquecento, l’arte dev’essere di tutti, leggibile a vari livelli ma bene comune. Il rischio, lo nomina anche De Finis, è il gigantismo, la maledizione dei dinosauri, una crescita continua che soffoca le funzioni vitali e la stessa ragion d’essere. Per questo è giusto riconoscere alle opere la caducità, la fragilità, l’esposizione alla rovina.

Per evitarla, per mantenere la memoria, un mezzo c’è, e non fa torto agli autori, né ai cittadini, né agli specialisti. È la fotografia, dice Mimmo Frassineti: «Fotografo quello che mi piace, ciò che esprime la gioia di dipingere e l’abilità nel disegnare, la ricchezza di qualità. Certo, anche per preservare la memoria delle opere più aleatorie. Ma cerco di contestualizzare sempre il segno: strapparlo dal contesto è una deprivazione di senso».

La parola finale, forse, la dice Michele Smargiassi, giornalista di Repubblica, sul suo blog Fotocrazia: «L’autentica street art è sberleffo ai luoghi della cultura, è critica guerrigliera al paesaggio urbano degradato e mercificato. Tolti dal contesto per il quale erano stati pensati, trasferiti nel museo, i graffiti non sono più quel che erano: non più di quanto un fossile di ammonite sia ancora il cefalopode guizzante nei mari del Giurassico». Dopo aver ricordato che la storia dell’arte è sempre anche storia politica e del potere, i musei arsenali di armi per i conflitti contemporanei, cita Jean Clair: «I musei funzionano come macchine per trasformare in falsi le opere autentiche che vi sono ammesse». E propone, invece: «Volete salvare lastreet art rispettandola? Fotografatela. Come si fa con l’arte della performance. Fatelo bene, con coscienza, cura, creatività, aggiungete cose, idee, fatene un’opera derivata, moltiplicabile, comunicabile con onestà intellettuale (non fingerà di essere il vero graffito, ma solo la sua riproduzione-traduzione). Si può fare. Lo si è fatto. E se il rischio è che le fotografie dell’arte effimera diventino a loro volta opere d’arte permanente, be’, sarà il rischio di avere due opere anziché nessuna. Altrimenti, cosa l’abbiamo inventata a fare, la fotografia?».

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