Un poemetto inedito
Back office
«Un intero paese che stupra/ Pagando in contanti un orco ottuso/ Mezzo Lucifero e mezzo Caronte/ Piantato davanti alla baracca/ Che regola l’ingresso/ A quel sancta sanctorum dell’orrore/ Che doveva restare inviolato/ All’occhio del lettore»: sullo scrivere e morire in banca
Devi pur dirlo a qualcuno
Ch’eri a metà della storia
Cioè per te era finita
Prima che ti venisse l’idea
Quell’idea lì ch’era una svolta
Accidenti ma vai con ordine
Un passo alla volta
C’era una riunione sindacale
Quella mattina – che avevi disertato
Tanto per cambiare
E creavi in grazia di Dio
Nel tuo ufficio miracolosamente
Sgombro di colleghi
Per due ore di seguito
Ah che pacchia che dono
Inaspettato del cielo!
Proprio nessuno intorno
A far rumore a ficcare il naso
A molestare con istanze di lavoro
O peggio di socializzazione
E soprattutto senza le tue meschine
Messinscene quando qualcuno
Transitava vicino alla tua postazione
Un greve avanzo dell’universo produttivo
Ecco che eri – un ingranaggio difettoso
Del sistema – Ma non per questo ci torni
Ancora e ancora
E perché allora? Per dire tutto
Il davanti e il dietro della storia
E insomma era forse mezzogiorno
E una parvenza di sole
Era filtrata chissà come
Nei vostri scantinati tanto
Simili a plance di sottomarino
Per quei tubi pacchiani
Che incombevano
Dai soffitti in una ragnatela
Di lamiera e materiali plastici
E per quei pavimenti sintetici
Neri e gommati quasi da palestra
E tu eri in una specie di trance
Le mani si rincorrevano sui tasti
La testa assemblava immagini
Abbaglianti e violente e luttuose
Un intero paese che stupra
Pagando in contanti un orco ottuso
Mezzo Lucifero e mezzo Caronte
Piantato davanti alla baracca
Che regola l’ingresso
A quel sancta sanctorum dell’orrore
Che doveva restare inviolato
All’occhio del lettore
Perdio – c’era di che narrare!
Quando i colleghi tornarono
Dopo la pausa pranzo
Tu ancora scrivevi febbrile
E non riuscisti nemmeno
A distrarre gli occhi dal terminale
E fingere un minimo di interesse
Per la loro convention sindacale
Che doveva avere all’ordine del giorno
Che so una mancata indennità
O l’abolizione della pausa caffè
Nel nuovo contratto integrativo
Roba così di cui ti strafottevi
Fino all’anima e anche di più
Sapete anche di più
E insomma eccoli giungere alla spicciolata
I colleghi – freschi di stipendio
Belli sorridenti soddisfatti
Parlottanti vocianti già dal corridoio
Fastidiosi all’orecchio
Come un’orda di insetti
Facendo crocchiare le scarpe
Sui bolli gommosi del piancito
E già passandosi di mano
La busta paga appena ritirata
Al secondo piano
Era il ventisette fatidico
O il ventotto – raramente ritardavano
Di un giorno gli addetti delle Risorse Umane
Era giorno di stipendio dunque
Cioè quasi di festa
Per l’idealtipo dell’impiegato
Dio che pena che provavi
Per loro e per te stesso
Per quel vostro meschino sottomondo!
E a poco serviva quale antidoto
La pantomima di indifferenza
Che inscenavi ogni volta
Tu che appena ricevuto il documento
Ne strappavi il bordino inferiore
Dentato e sbirciavi il totale
Per poi riporlo nella cassettiera
Sicuro al cento per cento di scandalizzare
Con quel gesto di svagata noncuranza
I tre o quattro colleghi di stanza
E proprio quello volevi – offenderli
Urlargli in faccia il tuo disprezzo
Per quanto invece si accingevano
A fare loro nessuno escluso
E cioè aprire la busta paga
Bene attenti a non sciuparla
Staccando la pellicola scura di protezione
Con pazienza e certosina precisione
Sapete – quella velina grigio scuro
Inventata in gloria della privacy
E nell’ora successiva fare il capello
A tutte le voci con scambio
Vivace di informazioni
Da una scrivania all’altra
Come fringuelli canterini sulle fronde
O pettegole comari alle finestre
T’hanno calcolato l’incremento ticket?
Ah no a me me l’hanno tolto!
E lo 0,15 degli assegni familiari?
Roba così facevano le pulci
Ad ogni stramaledetta voce della lista
Smanettando fitti sulla calcolatrice
Telefonando all’ufficio preposto
Per qualunque questione
Gli balenasse in capo
A tal segno ci prendevano gusto
Insomma mentre loro inscenavano
Quell’insopportabile teatrino
Che si ripeteva identico ogni mese
Tu eri tornato a scrivere
Calandoti subito come un palombaro
Nelle atmosfere cupe del romanzo
Che d’un tratto s’era arricchito dell’idea
Di allungargli la nottata a quei balordi
Chiamando a raccolta tutto il paese
In un carosello spettacolare e cinico
In un polverone rutilante
Per il gioco dei fanali
Delle auto e dei pick–up e delle moto
E per i raggi lunari
E forse per qualche lontano
Fuoco d’artificio
Già vedevi i notabili del paese
Confusi in mezzo agli altri maschi
Fra le macchine parcheggiate
Alla rinfusa nello spiazzo
Dello sfascio – volti burini
Accesi dall’alcol e dalla foia
Affratellati in quel gioco mortale
Dello stupro collettivo
Spuntato nel vischio della noia
Domenicale di paese – sapete
Chi davanti a un circolo sociale
Chi in qualche miserabile baretto
Per una briscola e un goccetto
Di vinello scadente
Chi abbrutito davanti alla tivù
Fra Domenica in e il dopopartita
Perché una delle due ragazze
Sarebbe morta ma sì
Ora lo vedevi con chiarezza
Doveva morire per forza
In quella bolgia infernale
La poveretta con un cavetto
O altro strumento adatto
Vibrato sulla testa
Dal più pericoloso dal più matto
E l’ignudo cadavere trascinato via
Nella notte fra le campagne e i boschi
Tiburtini fino alla ferrovia
E tutto il resto
Che ancora non sapevi – forse l’arresto
Di tutta la banda
O forse di uno soltanto
Il tuo eroe pavido e vile
Che aveva architettato
Quell’immondo mercato
Sulla sua vespa arrancante
Verso il centro del paese
In quel paesaggio pietroso e livido
Che precedeva i primi abitati
E pazienza se non era accaduto
Nell’evento reale
Ch’era stato sì tragico
Ma non mortale
Un tempo qualcuno ti aveva chiesto
Come mai fossi così sbrigativo
Con la lettura dello stipendio
E tu olimpico avevi risposto
Che non ti appassionavano i dettagli
Ti bastava conoscere il totale
Che ti veniva accreditato sul conto
Infallibilmente ogni fine mese
Quel totale che rivelavi a tutti spudorato
Benché fosse tanto risicato
Perché non facevi straordinari
Neppure sotto richiesta
Del capoufficio o del capo divisione
Ma ormai s’erano dati pace
Tu per loro eri uno fuori di testa
Uno che faceva lo scrittore
E il cinema e andava in televisione
Uno che stava ancora lì con loro
Chissà per quale insana ragione
Forse solo per il gusto
Di rubare lo stipendio
Con la sua faccia di tolla
Ma eccoci finalmente al punto
Un collega che crolla
Sul piano della scrivania
Sulla busta paga dunque
Fulminato da un infarto
E tu sei l’ultimo a capire
Tant’ eri assorbito dal romanzo
Ci metti forse un minuto
O due a realizzare fino in fondo
Quando già s’era formato
Un capannello di persone
Che lo nascondono ai tuoi occhi
E già qualcuno si pone il problema
Di cosa fare del morto
Se adagiarlo per terra
O lasciarlo dov’è tutto contorto
E gobbo abbracciato
Alla scrivania di lavoro
Come un gruppo scultoreo
O quel celebre disegno goyesco
Il sonno della ragione genera mostri
Che da qualche parte avevi visto esposto
C’era un viavai frenetico di gente adesso
I paramedici del centotredici
Con gli strumenti di primo soccorso
E frotte di colleghi
Provenienti da ogni divisione
E tu intanto rimuginavi
Su quella faccenda strana
Che fra le due morti
Quella della tedesca violentata
Che avevi concepito
E quella del collega infartuato
Fosse passata appena qualche ora
E se l’una morte avesse indotto l’altra?
Ti ponevi questa domanda strana e balorda
Come sempre in disparte
Lontano dal mucchio vociante e operoso
Osservando quasi dal di fuori la baraonda
Come una macchina da presa
E con un senso quasi di sollievo dentro
Per quella distrazione forzata dal lavoro
Dall’atmosfera del lavoro – intendete
Nella sua rappresentazione quotidiana
Quel morto era comunque un’evasione
Dalla prigionia mentale della banca
II.
E così un bel giorno
Ti si fece sotto il capo
Dico il capo
Del tuo servizio distaccato
Che aveva due o tre nomi
Fra cui Back Office
Quello che è restato
Un funzionario di
Livello alto sapete
Quasi un dirigente
Un sessantenne
Più sale che pepe
Tutto palestra e tennis
E abbronzatura
Color rosso mattone
Anche a gennaio
Sulla faccia magra una barba
Cortissima canuta
Ma fitta e brillante
A contrasto della pelle
Uno che vantava scopate
Un giorno sì e l’altro no
Con la moglie però
Solo con la moglie
Ci teneva a precisare
Ammiccante paraculo
Davanti alla tua collega di stanza
Una 46enne ancora vispa
Che glielo tirava abbastanza
Lettrice di Cipria e Gioia
Lei – come lui palestrata
Come lui sempre in foia
Insomma si misurava il girovita
Costui il capo del servizio
Con una cinghia vecchia di serranda
Che srotolava un po’ per volta
Voleva misurarla anche a te
Un attimo dopo
Per canzonarti per sfregio
Visti i vostri rapporti
E la tua panza
Insomma costui gravitando
Nell’ufficio vostro a curiosare
A spettegolare a ciangottare
Perfino a lavorare
Con mossa repentina
Da quel figlio di troia che era
Acchiappa al volo
Sulla tua scrivania il mouse
Roba di un istante massimo due
Prima che realizzi
E lui già manovra sulla mappa
Insomma ti becca in flagrante
Vede che scrivi cristo santo
I tuoi cazzi invece di lavorare
Indugia anche a decifrare
Il titolo del documento aperto
Che scandisce con voluttà
Perché tutti sentano
Anche in corridoio
E nelle stanze affianco
Non c’è più tempo punto doc
Non c’è più tempo, eh, e che vuol dire?
Era il tuo primo libro sulla banca
Quello con lui dentro e altri colleghi
Resi per ciò che erano
I nomi appena camuffati
Precise al millesimo le fisionomie
Quasi a sfidar la sorte
Secondo il tuo costume
Cinico o solo dissennato
Ti aspetti fuoco e dinamite
E invece indugia
Al centro della stanza
Poi accenna a rispondere
Ma subito smette e sbuffa
Raschiando la voce
E si toglie di mezzo
In fretta – così com’era venuto
Ma l’indomani eccolo ancora lì
A fissare gli oleandri fioriti
Oltre il vetro della finestra
E dandoti le spalle dice
A quella filigrana rosa e nocciola
Che quasi lo inghiotte
Fra una questione e l’altra
Scambiata con gli altri colleghi di stanza
Che premi insieme troppi tasti
Per uno che lavora
E tu penosamente rallenti
La digitazione
Eri arrivato a tanto cristo santo!
Un ladro patentato un io a brandelli!
Per consolarti ti spedivi mail
All’indirizzo di casa
Dove ti annunciavi lo sballo serale
In modi estrosi e ingenuamente criptici
Oggi te la sei meritata baby
Today yes today yes today yes
Ti inviavi anche due o tre mail
Durante il tuo orario di lavoro
In cui parlavi al te stesso salvo
Quello che ti teneva in vita
Quello che sarebbe venuto
Quello che se ne stava al sicuro a casa
Nel suo guscio di musica e fumo
I vetri spalancati sul balcone fiorito
Di ciclamini viola sulla cortina
Del palazzetto di fronte
Quel rosso cotto frammentato
Che il sole declinante
Con le sue colate dense
A stento riusciva a dettagliare
Che ti faceva pensare a Hopper
Un momento prima che diventasse popolare
Postarlo sul social con frase
Di qualche guru incorporata
Oggi te la sei meritata vecchio mio
Today yes today yes – and Tomorrow?
Maybe my dearest but not sure
Ecco cosa ti scrivevi
Nella tua posta privata
Ove solo tu potevi accedere
E tutto il giorno accarezzavi
Quell’idea che sola poteva consolarti
Sparartela in serata ovvero
Nel tardo pomeriggio l’ora tua
Sul balcone fiorito
Anche lì in segreto a qualcuno
Anche lì mentendo anche lì fingendo
Anche lì rubando lo stipendio
Quello della vita salvo ognuno
Ma per tornare al punto
Da quel momento
Per non farti più scrivere
Quello ti spedisce di qua e di là
In giro per l’istituto
Roba contabile che non sapevi fare
E tu a elemosinare
Consulti a destra e a manca
Con la lingua di fuori
E ogni volta fallisci
E torni da lui balbettando
Qualcosa chiedendo scusa
Ma di che cosa cazzo?
Di che cosa?
Quasi di esistere! diresti
Lui comunque di fronte
Alle tue scuse
Sbuffa e severo infierisce
(Se in presenza d’altri
Sennò non metteva conto)
Ma come non sei capace neppure
Di fare una fotocopia formato A3?
Ma ci sarà una cosa che sai fare
A parte quello che sappiamo?
E così per mesi su quella china
Della colpa dell’umiliazione
Ogni volta un nuovo morso
Sul vivo della carne
Finché non ne puoi più
Stai raggiungendo il fondo
Ti pare quasi di toccarlo
Qualcosa di sordido lutulento
Che rimonta alla colpa primordiale
La colpa di tutte le colpe
Quella sul padre – naturale
Che così bene conosci
La notte non dormi o scalci
Le sagome di nemici sempre pronti
A coglierti in fallo a svergognarti
La luce ti ferisce e così il buio
Non ridi più non sorridi
Patisci – sicché quel mattino
Arrivi presto per trovarlo solo
Nel suo ufficio prestigioso
Di funzionario e Capo Divisione
Con tanto di targa d’ottone
Fuori della porta
Chiedi permesso entri
Umile riverente ossequioso
Chiudi pure la porta
Per isolar l’ambiente
Ti sistemi imposti la voce
Dichiari la tua fatica la tua ansia
La tua inquietudine malata
Con la faccia dolente
Se non proprio disperata
Anche stavolta
Ti aspetti una sfuriata
Una lavata di testa
Perfino un trasferimento
Chissà dove a Canicattì a Bari
In qualche sperduta filiale
In culo al Paese
O licenziamento per giusta causa
Roba così vatti a immaginare
Qualcosa insomma di pesante
Sei già pronto alla mazzata
In un lampo pure rifletti
Che tanto peggio di così
Non può andare
Che dal fondo si può solo risalire
Che magari ti costringerà
Alla fuga – finalmente
E invece lui ti spiazza
Ti compatisce e dichiara
Di aver subito un brutto trattamento
Pure lui in passato nella filiale catanese
Da un capo disgraziato
A cui stava sul naso
Eh no al lavoro non
Si può mica soffrire d’ansia!
Questo non possiamo accettarlo!
Conclude con qualche solennità
Ma non sono resipiscenze
Beninteso gli è che teme
Rappresaglie sindacali
Comunque promette
Assicura che finalmente la smette
Accenna solo nel finale
Al tuo vizietto
E tu fingi di niente
Cos’ altro potevi fare?
Ammettere che scrivevi
E scrivevi e scrivevi
E perdio avresti continuato a farlo
Pure al suo funerale!?
Non manchi di stringergli la mano
Alla sua festa di congedo
Prima della pensione
Quei penosi party aziendali
Dove recitavi il tuo copione
Di schiavo appagato e sorridente
E gli fai nel mentre della stretta
Beh, non sei contento?
E lui, certo che no
Perché dovrei
Con dispetto nella voce
Muovendo il mento
Da una parte all’altra
Come un uccello acquatico
Una risposta che diceva tutto
Senza spiegare niente
Come da copione sapiente
Lo ricordi sempre
Con pesantezza di cuore
Quel tipo ordinario
Nei suoi tweed blazer
Fatti su misura assieme
Alla camicia siglata
Insomma quel figurino
Vispo e azzimato
Che fuori dalle mura sudate
Della banca non avresti
Nemmeno degnato
Di uno sguardo
Uno dei tanti
Manco il peggiore
Che funestano i tuoi sogni
Ancora e ancora come se il tempo
Non fosse mai passato
Con te in eterno inchiavardato
Alla tua scrivania di impiegato
Vicino alla finestra
Chissà perché lo cerchi
A distanza di tanti anni
Sul web sui social
Che frequenti
Senza motivo anzi
Per dire il vero
Con la vaga idea
Di fargli un torto
Ma non lo trovi
Grazie a Dio
Di certo non pregheresti per lui
Se fosse morto
E poi è arrivato il Sorcio
Come Dio ha voluto
A chiudere finalmente la partita
A farti cambiare aria
Dopo sedici anni
Di quel bagno penale
Cominciasti a scriverlo
Che la vicenda era in corso
E davvero non sapevi come
Sarebbe finito sapevi soltanto
Che ti dovevi vendicare
Al più presto e di brutto
Di quel bastardo di quel farabutto
Di collega che tante
Volte t’aveva umiliato
E continuava a farlo
Impunemente ogni giorno
Con insulti e minacce
Non come gli altri dunque
Lo avresti trattato quell’infame
In lui doveva aggrumarsi
Tutta la crudeltà della storia
In te tutto il disagio e il dolore
Di quella condizione umana
Servile impiegatizia
L’altra cosa che sapevi
Era il titolo del libro
Quell’epiteto infamante – Sorcio
Che a lui quasi piaceva
Era perfetto – l’avrebbe marchiato
Per sempre
Avresti inscenato nel racconto
Un duello ininterrotto
Non già pietistico
Ma duro come il piombo
Dove nessuno si salvava
Tanto meno chi racconta
Non avresti taciuto niente
Di te del tuo guasto interiore
L’analisi t’avrebbe aiutato
A organizzar lo spurgo
Dando ritmo al duello
Interno ed esterno alla banca
Con scontri fisici e picchiatori
Prezzolati – sapete – e fattucchiere
E denunce al sindacato
E magari pure una pistola
Che spuntava da qualche parte
Per un noir tutto da inventare
Assieme al tuo privato familiare
Alla tua quotidiana fatica
Fra multiple dipendenze
E lutti male elaborati
E tutto il resto che sappiamo
Il solito vittimismo
Piccoloborghese il solito piagnisteo!
Qualcuno avrebbe commentato
Dostoeskysmo di superficie
Avrebbe concesso il più generoso
Ma ormai il sasso era lanciato!
Ma com’era il Sorcio d’aspetto?
Qui ancora non l’hai detto
Basso e pelato e panciuto
Ecco com’era – più vicino
Ai sessanta che ai cinquanta
Sempre un po’ torvo irsuto
Sporco della barba
Di due o tre giorni
Con un avanzo
Di sigaro puzzolente e ciancicato
All’angolo della bocca
Sgradevole alla vista
Come un ratto grosso
Mezzo spelato e laido
Flottante sul battiscopa
Non era mica casuale
Quel soprannome
Che gli avevano affibbiato!
Il Sorcio esercitava su di te
Benché inferiore di grado
Nelle gerarchie aziendali
Un mobbing forsennato
Sia detto chiaro un’altra volta!
Scaricandoti addosso tutto
Il suo livore cieco dissennato
Che pareva in lui tramandato
Da generazioni – ti voleva punire
Come se qualcuno l’avesse
Investito di quel compito
Di giudice supremo e giustiziere
Per il tuo scrivere in banca
Certo – ma in realtà per tutto
Ciò che eri e rappresentavi
Per la tua anomalia
Per la tua diversità conclamata
Perché snobbavi i viaggi aziendali
E le altre menate associative
Ch’egli amministrava con gonfiato
Profitto personale
Lui ch’era a capo del Cral aziendale
Poi per l’ideologia
Giacché tifava a destra
Una destra estrema – di borgata
Lui che proveniva
Da Torre Angela o Tor Vergata
Vatti a ricordare!
Che in certo cinismo romano
Frainteso e rozzo
S’era trovata in gloria
Come sopra a un altare
E ti odiava per la cultura
Che disprezzava come da manuale
Lui che a stento articolava verbo
Nel suo lessico da caserma
Da stadio o da taverna
Fra risate scomposte
Bestemmie e invettive velenose
Contro questo o quello
Ce n’era sempre uno da disprezzare
Da offendere da sottomettere
E uno sconcio e aggressivo
Gesticolare
Da bestia indomita
Ecco questo era il Sorcio
Quando ti saltò al collo
Scavalcando d’un balzo
La tua scrivania di lavoro
Sotto la gragnola dei colpi
Parandoti il volto
Con le braccia alzate pregavi
Iddio che qualcuno accorresse
A strapparti via
Quella belva tentacolare
Che ti voleva annientare
Mai nella vita t’eri sentito
Così umiliato così oltraggiato
Così deluso da te stesso
Quel libro sarebbe venuto
Perdio a riscattarti
Con tutti gli altri colleghi
Passivi complici e omertosi
Ma quanto al Sorcio
Lo avresti svergognato al mondo
Quant’è vero Dio!
Dentro la banca e fuori
A altro non riuscivi a pensare
Tant’eri accecato dall’onta
Ancora non sapevi se sarebbe morto
Alla fine del romanzo
O solo trasferito quel porco
O magari consegnato all’autorità
Se la vicenda avesse sforato nel penale
Te lo immaginavi già
Dentro una cella di prigione
O nella corsia di un ospedale
Vai a sapere dove t’avrebbe
Condotto la narrazione
Il Sorcio deve morire
Il Sorcio deve morire e morirà
Il Sorcio deve morire il Sorcio
Deve morire e morirà – ricordi?
Non è romanzo questo – è verità
Pagine e pagine videoscritte
Che alla fine salvasti con il nome
Morte del Sorcio punto doc
Con l’icona in bella vista
Nel bel mezzo dello schermo
E il suo fiato velenoso sul collo
Appena dietro al vitreo paravento
Dell’open-space
Lo odiavi come non avevi mai
Odiato nessuno al mondo
Un odio livido malato
Poiché ti aveva rivelato
Una volta per tutte
Per ciò che eri
E sempre eri stato
Ora vedevi chiaro
Anche nel passato
Non potevi più fingere il contrario
Un vile un debole un inetto
Quanto agli altri colleghi
C’era complicità – l’hai detto
Nel loro conformistico silenzio
Quei porci nel profondo
Tifavano per lui e come lui
Ti disprezzavano – v’era in atto
Una forma di linciaggio
Ai tuoi danni – capite bene
Che non risparmiava
Nessuno neppure i pezzi grossi
Ma la faccio breve – in conclusione
Il sorcio comparve in libreria
E pure sui giornali
E qualche copia cominciò a girare
Sottobanco negli uffici
V’era un che di sublime
Nella vendetta che ti stavi prendendo!
Ma i colleghi nei corridoi
Ti guatavano in cagnesco
E ti sentivi sotto assedio
Alla fine non restò che svignarsela
Senza scivoli o sconti
Senza un cazzo di niente
T’eri creato ad arte un movente
Inattaccabile perfetto
Un movente da Dio
Se resto lì dentro
O mi uccidono i colleghi
O mi uccido io!
—-
Le immagini sono tratte dalla serie “I Capricci” di Goya