A «Primo Piano sull’Autore»
Scandalosa Cavani
Da “Francesco d'Assisi” a “La Pelle“, il cinema italiano rende omaggio a un'autrice scomoda, mai accomodante. Sempre pronta a raccontare il lato oscuro della vita e della storia
Chi ha paura di Liliana Cavani? Se si mettono in fila i numerosi interventi della censura, le interpellanze parlamentari, la mancata circolazione di questo o di quel film, non c’è dubbio che, nel corso della sua attività, qualcuno a torto o a ragione ha avuto paura della sua carica polemica e della sua audacia sessuale, contribuendo a delineare quell’immagine fra trasgressione e sensazionalismo che sa di zolfo a cui fanno pensare non poche reazioni d’epoca, in un mix alla Frankenstein che ha il volto stravolto di Lou Castel, il seno nudo tra le bretelle di Charlotte Rampling, i ménages à trois tra Nietzsche e Tanizaki, la sirena bollita alla tavola del generale Cork. In realtà il cinema di Liliana Cavani – a cui il Primo Piano sull’Autore di Assisi ha appena dedicato un significativo omaggio – appartiene alla grande stagione italiana che, dopo la crisi del neorealismo, allarga lo sguardo per andare oltre la superficie immediata del visibile attraverso la metafora, il simbolo, il sogno. Mentre per la maggior parte dei protagonisti della nuova ondata il rapporto con la televisione avviene solo in un secondo momento, quando non gli resta assolutamente estraneo, per la regista di Carpi si tratta di un momento fondamentale della sua formazione di autrice di lucida intelligenza e di appassionata ricerca culturale.
Il debutto nel lungometraggio avviene con Francesco d’Assisi (1966),un esordio clamoroso in cui la regista evita la logica dello sceneggiato televisivo da studio per girare tutto dal vivo con la complicità della troupe come se fosse un fatto di cronaca. Ma il paradosso del film sta proprio qui. Il procedimento apparentemente neorealista non intende cogliere la verosimiglianza degli avvenimenti esteriori né l’attendibilità storica del percorso biografico, ma punta decisamente sulla verità interiore del protagonista, sulla sua emblematica ribellione nei confronti delle strutture tradizionali della società. Nessuna concessione all’agiografia in un racconto scarno, essenziale, prosciugato fino alla nudità dei corpi, dei paesaggi, delle scenografie. Se nella sua febbrile ansia di cambiamento Francesco d’Assisi sembra anticipare la contestazione giovanile, Galileo (1968) si richiama alle decisioni più promettenti del Concilio Vaticano II sui problemi della scienza. Il dramma dell’intellettuale in anticipo sui tempi, che tenta di confrontarsi con le gerarchie ecclesiastiche ma si deve arrendere di fronte all’intolleranza del potere, evita gli stereotipi del biopic per illuminare i momenti esemplari di un’avventura umana e scientifica nella convinzione che la storia è sempre storia contemporanea, coniugata al presente nel segno dell’attualità.
La consacrazione internazionale arriva con Il portiere di notte (1974), che ottiene un clamoroso successo di pubblico nel momento in cui, bersagliato da interventi censori, suscita infinite polemiche coinvolgendo Michel Foucault, Félix Guattari, Luchino Visconti, Alberto Moravia, Pauline Kael. Nella tragica rimpatriata tra lo Sturmbanfuhrer nazista e l’ebrea Lucia Atherton, che si erano incontrati nell’orrore del lager, guarda in faccia senza mezze misure le pulsioni sadomaso, che si annidano nell’inconscio, in un incandescente melodramma che coniuga abilmente le ambiguità della natura umana con i riti del sangue e del sesso, sullo sfondo degli abissi del secolo breve. L’Hotel Zur Oper di Vienna, dove vittima e carnefice si ritrovano recuperando l’allucinata immagineria dei campi, anima una specie di discesa agli inferi, al regno dell’ombra e della morte, a cui si contrappone l’inno alla vita della rappresentazione del Flauto magico. Nello stesso albergo complotta un gruppo di ex-nazisti, sospesi tra dissimulazione e nostalgia, quasi un rendez-vous di fantasmi che porrà fine tragicamente alla vicenda.
Sottovalutato all’epoca da una parte della critica ma premiato al box-office, La pelle (1981) è un film di grande interesse che sfronda abilmente il romanzo malapartiano – in cui il racconto si alterna al pamphlet polemico e al diario narcisistico dell’io narrante – per puntare sull’affresco della Napoli del ’43 liberata dagli americani della Quinta Armata senza rinunciare agli aspetti scabrosi, ma sottolineando energicamente come la guerra abbruttisca vincitori e vinti, travolgendo gli uni e gli altri in un’oscena escalation. Nello scenario vivacissimo delle situazioni più stravolte e chiassose che si accavallano tra di loro, l’impressione è che nessuno salvi la faccia e l’anima, mentre i soldati americani non smettono di fotografare e di filmare ogni momento della loro irresistibile avanzata. Il gusto dell’eccesso e la ridondanza dell’affabulazione contrassegnano l’iperrealismo di un film che non rinuncia mai a interrogarsi con acutezza sul ruolo dell’immagine e sul potere del cinema.