Una mostra a Roma
Mistero Edith Piaf
Cent'anni dopo, il mito di Edith Piaf è intatto. Nella sua voce c'è il segreto di una donna capace di affascinare il mondo con la sua personalissima concezione del dolore. Nella vita come nell'arte
Di Edith Piaf oggi resiste e affascina ancora l’aspetto anticonvenzionale, l’artista ribelle e dalla vita tragica che non dava peso alla fama o al denaro, trovando se stessa solo sulla verità della scena e nei rapporti d’amicizia e amore. Oggi, 19 dicembre, avrebbe compiuto cento anni e se la Francia l’ha celebrata a Parigi con una grande esposizione alla Galerie Mitterrand della Bibliothèque Nationale che si è chiusa a settembre, in Italia si è appena aperta una mostra per ricordarne l’arte e la vita, il fascino: Edith Piaf. l’amour (nel centenario della nascita) a cura di Cesare Nissirio e Guglielmo Pepe al Teatro di Villa Torlonia a Roma, dove proprio oggi, alle 19 alla presenza di Phillipe Leroy si terrà un concerto di sue canzoni con l’Ensemble Paris qui.
Proprio per questo aspetto a contrasto col mondo patinato della canzone e del suo delicato soprannome dovuto alla sua figura minuta – Piaf vuol dire passerotto – si parla di lei, che all’anagrafe si chiamava Giovanna Gassion, come di una sorta di rockstar antelitteram, di quelle che bruciano la propria vita andando controcorrente, una delle voci degli anni dell’esistenzialismo, e non a caso forse che i versi di una delle sue canzoni più celebri dicano: «No, niente di niente! / No, non rimpiango niente! / Tutto è stato saldato, spazzato via, dimenticato./ Non m’importa niente del passato.// Coi miei ricordi, / innesco la fiamma,/ dei miei dispiaceri e dei miei piaceri / non ho più bisogno». Il suo amico Jean Cocteau (che la fece debuttare in teatro scrivendo per lei Il bell’indifferente) affermava che cantava «come se si strappasse l’anima dal petto».
A Parigi erano in mostra oltre quattrocento fra fotografie, lettere anche di ammiratori che riceveva a migliaia, manifesti, dischi, film, riviste, nonché all’ingresso il minuscolo – visto che la Piaf era alta 1 metro e 47 – abito di scena nero sospeso al soffitto, con la gonna plissettata e le maniche lunghe: la cantante era convinta che il nero facesse risaltare la sua voce e poi non voleva lo spettatore venisse distratto dal suo aspetto. C’erano anche i guantoni del pugile Marcel Cerdan, suo grande amore scomparso in un incidente aereo nel 1949, una matrice in rame dorato dalle prime registrazioni della Polydor, un testo manoscritto di Roland Barthes del 1948 sulla canzone popolare che avrebbe dovuto leggere a un convegno in Romania.
Tanti sono stati i suoi amori; molti con giovani che lei aiuta da approdare al mondo del grande spettacolo e che diverranno capisaldi della grande storia della canzone francese e non solo, da Yves Montand a George Moustaki, Serge Reggiani, Gilbert Becaud, Charles Aznavour, Leo Ferrè.
Il suo mito lo alimentò lei stessa, cominciando dal racconto delle proprie origini: diceva di essere nata per strada, a Belleville, anche se all’ospedale Tenon si trova un certificato che ne attesta la nascita. Così si diceva abbandonata dalla madre e finita a vivere con la nonna che gestiva una casa di tolleranza in Normandia. In realtà era figlia e nipote di saltimbanchi, nata da un acrobata e contorsionista, artista di strada che la portava in giro con sé, finché nel 1935 la sentì cantare e la scoprì il direttore del cabaret Le Gerny’s, che la lanciò nel bel mondo e l’anno dopo ottenne il prestigioso riconoscimento Grand Prix du Disque con la canzone L’Etranger, mentre il suo debutto era legato a una canzone italiana, Parlami d’amore Mariù, divenuta Le chaland qui passe, e la mostra di Villa Torlonia con manifesti, spartiti, foto, libri, riviste illustrate, documenti, dischi, e così via, parte proprio da quegli inizi col passaggio dalle alle miserie della rue al lusso, ai successi e poi di nuovo al dolore, all’alcolismo e alla droga.
I titoli del suo celebre repertorio sono noti a tutti e successi mondiali, da La vie en rose a Milord (scritta per lei da Moustaki), da Elle frequentait la Rue Pigalle a Je ne regrette rien: storie di amori appassionati, di colore e disperazione, ma sempre sorrette dalla poesia, oltre che dalla sua voce ruvida, aspra e potente, emblema della Francia durante la guerra, l’occupazione nazista e poi il dopoguerra, sempre in scena, sempre con la voglia di cantare («altrimenti muoio») sino all’ultimo agli anni in cui è malata, intossicata dai barbiturici per difendersi dai dolori, e pare ogni volta debba morire in scena. Mistero e leggenda anche sulla sua morte che pare avvenuta a Cannes il 10 ottobre 1963, ma è stata registrata il giorno dopo a Parigi, dove si dice l’avesse trasportata nottetempo l’ultimo marito, perché la regina dei boulevard non poteva che morire nella capitale.