Al Museo del Corso della Fondazione Roma
L’urlo del CoBrA
Karel Appel, Constant, Corneille, Asger Jorn, Christian Dotremont: una grande mostra racconta il gruppo CoBrA, ultima fiammata d'avanguardia della (dolorosa) pittura del Novecento
Per una volta è giusto partire dai titoli di coda. Balzano agli occhi nomi di artisti tedeschi, olandesi, belgi, scandinavi, inglesi sconosciuti al grande pubblico, dimenticati anche dagli addetti ai lavori, almeno in questa provincia dell’Occidente che è l’Italia. C’è persino un autore che sventola la bandiera d’un paese, l’Islanda, escluso dalla pigra mappa geografica delle nostre abitudini. Eppure hanno firmato quadri e opere che, esposte qui alle pareti, inchiodano lo sguardo per la forza dei colori, la singolarità d’impianto, il campionario di forme bizzarre in bilico sull’ambiguo crinale tra figura e astrazione. Il primo merito della mostra CoBrA in scena fino al 3 aprile nel Museo del Corso della Fondazione Roma è di porci davanti a questa scoperta, un’eccezione nel calendario delle grandi esposizioni che, per fare cassetta, tendono a riproporre il giù noto.
Ma ancora più importante è un secondo traguardo tagliato da questa rivisitazione: che accende i riflettori sulle spinte creative che emergono nell’immediato dopoguerra in questo spicchio che rappresenta la pancia del vecchio continente. E su un movimento, il gruppo CoBrA, forse l’ultimo sussulto d’avanguardia, che in profetico anticipo sulla nascita della comunità europea, predica in nome dell’arte la condivisione di un’Europa transnazionale che unisce le proprie risorse e alza la voce per contrastare la strategia egemonica dell’infornale e dell’action painting made in Usa, che stava spostando Oltreoceano il baricentro del mercato e dell’innovazione culturale. E si allea per sconfiggere le tentazioni regressive del realismo socialista che vengono d’oltre cortina e puntano a congelare dibattito e sperimentazione negli stereotipi di un arte comprensibile alle masse.
Schierato contro questi due fronti il movimento CoBrA sceglie di attestarsi in una sorta di terra di mezzo, che mette al bando le teorie dell’astrazione pura, quella che, a loro avviso, sulla scia di Mondrian era precipitata nelle algide braccia della geometria e dei colori puri. Ma volta le spalle anche al rassicurante rifugio nella figurazione, favorito dalla diffusa deriva del ritorno all’ordine. E prende le distanze anche dallo sfibrato formalismo del cubismo d’imitazione e dalla dittatura razionale che André Breton aveva imposto al surrealismo, di cui i padri fondatori del gruppo sono stati e si sentono una costola distaccata. A mostrar loro una rotta è l’influenza e l’esempio di almeno tre padrini: lo sconfinamento nel territorio magico e innocente dell’immaginario infantile di Paul Klee, che venerano come un nume, le ricerche materiche del francese Jean Dubuffet, e la violenza dei contrasti cromatici di Emil Nolde, in cui riconoscono le proprie ascendenze nordiche. A questa dote di partenza i seguaci aggiungono una forte passione per le forme arcaiche e le mitologie dell’arte africana e di tutti i primitivi, una accentuata propensione al racconto, una capacità di ascoltare e liberare le voci dell’inconscio. E infine una dichiarata volontà a lavorare insieme, sia nell’elaborazione teorica sia nella pratica della pittura.
Ecco dunque le basi su cui nel novembre del 1948 i cinque artisti che si erano dati appuntamenti in un caffè parigino costruirono il movimento. Tre erano olandesi: Karek Appel, Constant e Corneille (nella foto sopra). Uno danese: Asger Jorn, il teorico e l’animatore più attivo. Uno belga: lo scrittore Christian Dotremont. Fu lui a trovare il nome a quell’avanguardia nascente. CoBrA, un acronimo che raccoglieva le iniziali delle tre capitali di provenienza, ma evocava anche l’aggressività e i veleni del serpente, che divenne il loro logo. Tra i progenitori merita di essere incluso il belga trapiantato in Francia Alechinsy, l’unico oggi sopravvissuto.
Tutti si portavano addosso le cicatrici di una tragedia condivisa: il ricordo dell’invasione nazista, che li aveva o li avrebbe relegati tra i dannati dell’arte degenerata, e gli orrori della guerra. Memorie che riaffiorano nelle tele d’esordio che la mostra al museo del Corso raccoglie a mo’ di prologo. Per Karel Appel (nella foto qui accanto) è il panorama di una metropoli devastata, un groviglio di palazzi in macerie tra cui si intravedono teste e sagome di bambini: quegli sciuscià che aveva visto aggirarsi nelle strade delle città ancora in rovina, due anni dopo la fine dei bombardamenti. Per Constant è l’ossessione di un campo di concentramento: una sagoma che urla terrore e dolore in primo piano, un cielo solcato da nuvole ispide come filo spinato.
Ma anche la ricostruzione e il presagio del conformismo, della perdita di valori che la ripresa economica si porterà appresso, strappano grida e moniti di angoscia e dolore alla loro anarchica fantasia, che esalta come risposta l’autenticità delle pulsioni individuali, le voci senza mediazioni dell’inconscio. Traducendosi in una serie di opere scabrose, taglienti, affollate di messaggi dissonanti.
Difficili da abitare i quadri di Asger Jorn (nella foto accanto al titolo). È come essere sommersi da un onda di flussi di colori pastosi e impastati che ti guidano in direzioni diverse, unica bussola un vortice di volti accennati e poi sommersi da un groviglio di altre linee. Difficile reggere l’impatto luciferino, il sovraccarico di grottesco che emana dalle maschere con cui Karel Appel taglia i fondi scuri e ribollenti delle sue tele. Un senso di spaesamento e disagio che ti aggredisce anche oggi, garantendo a quelle opere così apparentemente legate alla Storia che le ha generate capacità di coinvolgimento e durata. Anche quando il furore sceglie altre strade più narrative, come nei quadri del danese Carl Henning Pedersen che si trascinano una morbida impronta di sogni, o in quelli dell’olandese Constant popolate di ectoplasmi, fantasmi che solo un animo bambino può evocare. Anche quando si concretizzano nella sintesi di arcaici vocabolari ad ideogrammi come nei lavori di un pittore scrittore, il belga Dotremont: un vero gioiello il lavoro a quattro mani composto insieme ad Alecinskj, che traduce i grafemi di Dotremont in un nuovo alfabeto di fascinose spirali blu. È datato 1974: segna un rapporto di collaborazione e confronto che perdura venti anni dopo lo scioglimento dichiarato del gruppo CoBrA, che ufficialmente ammaina bandiera nel 1952 dopo appena tre anni, il tempo per dar vita a due importanti mostre collettive ad Amsterdam e Liegi, a una collana editoriale di monografie e a una rivista che conquistano seguaci e compagni d’avventura in tutta Europa. Poi ognuno per la sua strada. Ma quelle dei padri fondatori continueranno ad incrociarsi anche dopo. A realizzare opere che mantengono il vigore dissacrante degli anni d’esordio. E a dar vita ad esperienze comuni di grande risalto, come quella dei laboratori di ceramica di Albissola in Italia, dove i portabandiera dei CoBrA sforneranno opere che hanno rivoluzionato questo linguaggio. Tra gli artisti coinvolti ci sarà anche l’italiano Enrico Baj, cui la mostra al museo del Corso dedica uno dei suoi siparietti finali.