Una mostra alla galleria Studio S
L’origine di Sinisca
Roma riscopre Sinisca, uno dei maestri del secondo Novecento, sempre diviso tra l'Italia e Manhattan, che la critica modaiola ha finito per dimenticare. Colpevolmente
Non chiedete a Sinisca perché ha cominciato a dipingere. Perché quei colori, quei segni. Perché quelle forme con cui si è poi cimentato con la scultura e la creaziome di gioielli. La risposta annegherebbe in una formula vaga dentro quegli occhi trasparenti, quel sorriso cortese da gentiluomo d’altri tempi. E non è solo il distacco un po’ smemorato con cui difende i suoi 85 anni compiuti. Non sa, non ha mai davvero saputo spiegarsi a parole Mimmo Siniscalco, anche prima che con quel nome di battaglia ottenuto troncando a metà il suo cognome decidesse di lanciarsi nel mondo dell’arte, lasciandosi persino alle spalle un lavoro ben remunerato all’Ibm. All’arte, questo artista così schivo e conciso ci è arrivato seguendo le sirene dell’istinto, un coro di voci intraducibili, assecondato da un gusto altrettanto sicuro, da una vocazione all’ascolto e allo sguardo e da una formazione libera di autodidatta. Lo ha ripagato uno straordinario successo internazionale, oltre cento mostre personali in mezzo mondo e opere acquisite in collezione da molti prestigiosi musei. E oggi, in negativo, l’amarezza di esser stato un po’ messo in disparte dalla critica distratta e modaiola che investe solo sul nuovo. Invece che interrogare Sinisca bisognerebbe interrogare i suoi quadri d’esordio. Come quelli inediti, poco visti o dimenticati che suo fratello Carmine Siniscalco ha scovato nella casa di Sinisca in via Margutta, una foresta magica di guglie di bronzo o di ferro. E ha scelto di esporre nella galleria Studio S, che gestisce in via della Penna. Una sorpresa per tutti, anche per gli amici, queste prove dell’artista da cucciolo. Come quel piccolo nudo del 1955, un corpo illuminato da bagliori rossi contro un fondale di incubi che evoca la migliore produzione della scuola romana, con cui pure Sinisca, trasferitosi da Napoli a Roma in quegli anni, non aveva intensi contatti. O ancor più quella piazza Navona del ‘58, che sembra sfaldarsi, riconoscibilissima ed enigmatica in un cielo di ocra. Un capolavoro degno di Scipione, ma quello snaturarsi delle figure in ombre e fantasmi è tutto di Sinisca, che continuando a sperimentare e a liberarsi di ogni modello dedica al paesaggio urbano e alle periferie visioni che accentuano la cupezza dei segni neri, sfrangiati in trame d’ombra come fossero il respiro dei ponti, dei palazzi, delle città, relitti di storia e di realtà. O s’impennano in sprazzi e squarci di luce, evocando alla lontana i cieli incendiati di Turner. La modernità, con le sue fughe in avanti e i suoi precipizi di senso, irrompe nell’immaginario di Sinisca in modo sempre più prepotente, alterando l’impianto dello spazio, cogliendo vuoti solcati da una ragnatela di curve, tralicci, rami d’acciaio sospesi quasi tentasse di descrivere l’invisibile sistema arterioso che innerva la modernità. In ogni scena sembra rivivere trasfigurata l’emozione che il pittore deve aver provato di fronte al ponte di Brooklyn , in uno dei primi viaggi a New York, dove poi fisserà il suo domicilio per una ventina d’anni. Quei segni avvolgenti e ricurvi come le nervature di un ponte, diventeranno una delle cifre più ricorrenti nei quadri americani. Il fuori della metropoli come specchio di un dentro modulato di sinapsi, filamenti, collegamenti, spunzoni galleggianti e aguzzi come stalattiti ,che sicuramente sono anche frutto delle sue esperienze di lavoro nell’informatica. Mai a Manhattan si erano visti grattacieli dipinti così, con questo stupore profetico da ritorno al futuro. Un timbro originale che gli assicura riconoscibilità e immediato successo. Ma non inchioda alla ripetizione la sua fantasia. A spingerlo è un senso poetico del vuoto che trova altre tavolozze più limpide e più ricche nel raccontare altri luoghi d’incanto. Come il deserto di polvere e sole del Negev, come il panorama sassoso di pietre e di sole di Gerusalemme, come lo scherno fluttuante del Lago di Tiberiade. Come il miraggio delle isole greche, che dipinge come nuvole precipitate in mare. O altre vedute di pura fantasia immerse in un bagliore di colori pastello, che in seguito diventeranno le tonalità preferite delle sue foto e dei suoi fotomontaggi. Il pieno e il vuoto come un ricamo di corpi: è sull’onda di questa partitura emotiva e poetica che Sinisca approderà alla scultura, altra svolta imprevedibile della sua carriera creativa. Quelle alberature di ferro o di bronzo leggere e svettanti con cui si chiude questa mostra, che si arresta alla fine degli anni Settanta.
Un altro campionario di sculture di Sinisca di scala più grande sarà esposto nell’auditorium della Fintecna in via Veneto, sempre a Roma, nel quadro di una mostra collettiva riservata a 4 grandi maestri dello scalpello, presenti nelle collezioni della società.
Dopo, un altro mezzo secolo di invenzioni e capricci che Sinisca non riuscirà mai a spiegare. Ma ancora più inspiegabile è il silenzio che è calato a poco a poco su un artista così parco di parole, così pieno di cose da dire. Purtroppo il mercato del contemporaneo non è un paese per vecchi. E non ama neppure gli autori che restano fino all’ultimo bambini.