L'ezleviro secco
L’oggetto vivente
Viviamo un'epoca dominata da oggetti che sembrano vivere di vita propria: ma uno smartphone ci aggredisce senza conquistare il valore trascendentale delle bottiglie di Giorgio Morandi
Viviamo un’epoca oggettivante. Siamo assediati da questioni e cure, sollecitudini legate alle cose. Gli oggetti non sono più utili, ma aggressivi a fronte di una chiara pretesa di dominio: hanno una vita a sé stante, vita però battagliera, vita altresì dinamica, accelerata dal senso di frustrazione che la loro stessa presenza suscita. Mi è capitato di leggere che alcune persone hanno causato incidenti a seguito di un selfie scattato in situazioni estreme. Qui è facile sottolineare la voglia sfrenata di protagonismo, più difficile capire che l’oggetto è diventato assassino. Gli smartphone sono strumenti nevrotici solo a guardarli. La connessione che essi promettono è il paradiso artificiale da cui si dipana una fiera della vanità di proporzioni mondiali. Il notebook sul quale sto scrivendo mi aggredisce confondendomi con le sue vie di divagazione. Tant’è che mi occorrono sei ore per scrivere due righe.
Ci vestiamo di oggetti, sono nostre escrescenze, porzioni dell’anima fuoriuscite dal corpo ed entrate in un meccanismo di perversione. Entro di esso la microfisica del potere assurge a fisica della potenza. In effetti le cose, subendo un processo di umanizzazione, hanno acquisito una volontà di potenza non irrilevante. L’accessorio raggiunge il rango dell’importanza vitale. Gli oggetti oggi perpetrano una rivolta. Sono i reali protagonisti dello stato di guerra a cui stiamo assistendo, sia da un punto di vista materiale che psicologico, e alla fine dei conti saranno anche i reali vincitori. Sotto quest’ottica l’opera pittorica di Giorgio Morandi si inserisce in un contesto senz’altro profetico.
L’oggetto di Morandi è là perché sia trasceso. Non si muove, non fa presenza, si mostra. La sua visionarietà risiede nel messaggio che vuole trasmettere: «Sono quello che sono, ma nel dirlo sono altro». C’è una luce straordinaria, ineffabile in quei quadri spesso bui e desolati. E quanto più la scena è scevra, tanto più si coglie la particolarità della presenza.
Morandi ripete all’infinito le nature morte «come se si intestardisse su un senso che affiora e contemporaneamente si sottrae», rileva il poeta Yves Bonnefoy in alcune riflessioni sull’artista.
Morandi è perfettamente assorto. Spoglia la sua evocazione di tutti gli elementi significanti. Le cose sono lasciate fuori dall’atto del pittore. La presenza stigmatizza così il suo muto rimando.
Chiediamoci «perché il quadro induca a capire come queste vicinanze si negozino, nell’oscura massa delle forme così raggruppate, e scoraggi al tempo stesso dal cercare veramente di dipanare cosa accade in quel non-mostrato, in quel non-detto che somiglia molto a un non-essere».
Nelle scene morandiane non si può avvertire altro che il silenzio. Non c’è Logos, non si dice, la presenza si presenta. I contorni minimali e la deformazione dei bordi però inducono a credere che la statuarietà sia tremante, come la superficie di un lago smossa da sottile brezza.
«Presto sarò chi sono», recita un famoso verso di Caproni che riprende Borges. L’attesa è in un punto critico di conclusione definitiva.
Morandi è testimone del fatto che c’è dell’altro nella nostra esistenza. Ed è un altro innegabile, che anzi la negatività afferma. La realtà è così e non è così. L’altro non appare come un qualcosa di puramente esteriore, ma si presuppone dalla presenza di ciò che è. Per questo egli, nell’evoluzione della sua stagione pittorica, abbandona i temi propriamente metafisici per rappresentare il concreto.
«Le sue figure possono essere percepite solo come vestigia della vita, nel silenzio delle rovine, ma il loro colore ha conservato un’intensità che dimostra che il contatto con ciò che si percepisce come essere non è interrotto: i fiori sono recisi, eppure non appassiscono. E il bouquet su quel tavolo silenzioso, non si può dire forse che è qualcosa di disposto? Di disposto in vista di un arrivo, di un’attesa?». È l’attesa dell’anima che si dispone, si prepara alla purificazione del fiore reciso ma vivo, mentre la venuta è già dietro la porta, in procinto di bussare.
Gli oggetti restano un’ostinazione, un rifiuto ad abdicare del tutto, mentre il pittore vuole andare oltre: aprire la porta. Aprirla perché ha percepito che qualcosa sta arrivando, è sulla soglia. «Ecco!», si alza dalla sedia. «Ecco! Stavo aspettando!». Lo fa prima, si alza prima.
Quando gli oggetti sono là fermi, soli, lievemente spostati dal filo di luce che li abbaglia e li avvolge facendoli tremare, essi dichiarano in silenzio la loro pochezza a esistere. Depongono le armi. L’assenza dell’uomo nella scena è la speranza di una realtà davvero umanizzata nell’altrove, nell’al di fuori dell’opera, umanità capace e comprensiva di kenosi, spogliamento, nudità edenica.