Roberto Mussapi
Every beat of my heart, la poesia

L’intuizione di Gray

Grazie al poeta inglese vissuto nel XVII secolo, Foscolo compose “I sepolcri”. Perché l’elegia di Thomas Gray indica la presenza di una memoria collettiva fatta di infinite storie individuali e dove tutte le voci convivono

L’elegia del cimitero campestre di Thomas Gray, scritta nel diciassettesimo secolo, non è solo, come insegnano le storie, la pietra miliare della letteratura sepolcrale. E non è solo l’opera che ringraziamo per avere ispirato I sepolcri a Ugo Foscolo, il poema che porta vertiginosamente memoria e speranza a superare la storia da cui nascono, a toccare il cielo della Sistina e l’Oro dell’Oriente. L’elegia di Gray scopre, indica la realtà di una memoria collettiva, ineffabile quanto presente dalla nascita dell’uomo. Due sono le visioni del nostro destino dopo la morte: la visione metafisica, dagli Egizi a Platone, al mondo giudaico e poi monoteista, e la visione opposta che nega ogni possibilità di vita ultraterrena. Dai greci, con il loro Oltretomba di anime spente e opache, all’ateismo moderno. Gray introduce, avendola scoperta, una terza dimensione: un perdurare dell’anima e della vita stessa in una zona indeterminata della realtà. Che non è relegabile al puro tempio della Memoria, unica sede di sopravvivenza nel mondo greco. Una persistenza della vita anonima e ubiqua. Qualcosa di simile a quanto Jung definirà inconscio collettivo, ma nutrito dalle infinite storie individuali.
Mentre Foscolo celebra la memoria grazie agli eccelsi, a chi per la specie umana si immola eroicamente, Gray parla di una memoria della specie in ogni uomo, anche il più umile. Foscolo salva la specie umana, come Vico, attraverso i suoi campioni e martiri che la perpetuano esemplarmente. Gray, come faranno i paleoantropologi, indica una memoria della specie assoluta, anticipando un inconscio collettivo in cui tutte le voci convivono.

 

Thomas Gray

Batte il coprifuoco, campana a morto dell’addio del giorno,

il gregge mugolante vaga lento nei campi

e l’uomo che ha arato muove il passo stanco verso casa

abbandonando il mondo a me e al buio.

 

Smuore il baluginante paesaggio allo sguardo,

e un solenne silenzio immobilizza l’aria,

solo lo scarabeo ronza nel volo pigro,

e uno scampanio sonnolento culla gli ovili lontani,

 

e sotto quella torre ammantata d’edera

l’ottusa civetta rinfaccia alla luna

l’aura vagante nel suo rifugio segreto,

che molesta il suo antico regno solitario.

 

Sotto quegli olmi scabri, all’ombra di quei tassi,

dove le zolle si gonfiano in tumuli di polvere,

ognuno nella sua cella per sempre immobile,

dormono i rudi progenitori del villaggio.

 

E non li solleveranno dall’umile fossa

il grido ventoso del mattino respirante,

e le voci delle rondini dalle capanne di paglia,

e lo strillo di clarino del gallo, e l’eco del corno.

 

Per loro non brucia ora la fiamma del camino,

e la moglie non si affatica alle cose della sera,

e i bambini non corrono pigolando al ritorno del padre,

non si aggrapperanno più alle ginocchia per il bacio.

(…)

Può l’urna istoriata, il busto che rievoca la figura umana

richiamare al suo centro il respiro che fugge?

Può la voce dell’onore suscitare la silenziosa polvere,

l’ottuso gelido orecchio della morte?

 

Forse in questo luogo negletto è sepolto

un cuore che traboccò di fuoco celeste,

mani che avrebbero potuto reggere lo scettro di un impero,

e destare all’ebbrezza la lira generatrice.

(…)

Eppure per proteggere dall’insulto anche queste ossa

qualche fragile ricordo eretto lì accanto

con le sue rime sconnesse e le sue sgangherate sculture

implora ai passanti il tributo di un sospiro.

 

I loro nomi, i loro anni pronunciati da una musa illetterata

parlano in luogo dell’elegia e della gloria:

ma la povera musa ha disseminato più di un testo sacro lì attorno

che insegnasse al semplice filosofo a morire.

 

Chi mai rapito dal mesto oblio

lasciando per sempre questo palpitante essere ansioso

si è allontanato dai trepidi ovili e dal giorno radioso

senza lasciare alle spalle un perdurante

un lungo desiderante sguardo d’addio?

 

In qualche petto che ama resta l’anima partita

e qualche pietosa lacrima cerca ancora gli occhi perduti.

Anche dalla tomba grida la voce della natura,

e nelle nostre ceneri vivono le loro fiamme consuete.

Thomas Gray

(Da Elegia del cimitero campestre, in The conversation of voices, Algra editore. Traduzione di Roberto Mussapi dalla versione integrale)

Facebooktwitterlinkedin